L’sms che ricevo dall’ospedale San Martino di Genova dice: “Appuntamento I dose vaccino COVID lunedì 12 aprile ore 11,30 ingresso lato ponente del padiglione 3 primo piano. Si raccomanda massima puntualità”. Così la mattina del 12 ci mettiamo in macchina per tempo. Temo il traffico, e poi piove, e Genova, quando piove, si complica. All’esterno del padiglione 3 c’è gente che aspetta l’ascensore. Io tiro su il cappuccio della cerata e salgo le scale. Di graticcio metallico, esterne all’edificio. Mio marito subito dietro. Sa che detesto gli ascensori da molto prima del Covid.
Arriviamo al pianerottolo che manca un quarto alle 11. Davanti alla porta, chiusa, un’infermiera con termometro in mano, doppia mascherina e sovracamice. Dall’ascensore si affaccia un signore che cammina a stento. “Intanto si accomodi” gli dice l’infermiera aprendo la porta e recuperando una sedia. Arriva altra gente. Io faccio un passo indietro, tengo le distanze, mi tranquillizzo pensando che siamo all’aperto, sul praticabile metallico, e tutti mascherati. Per ciascuno, l’infermiera compila un foglio. Arriva un altro signore in carrozzina, passano lui e l’accompagnatrice. Moglie? Sorella? Poi una ragazza con le stampelle. Tutti dentro. Alle 11 meno dieci sul praticabile ci siamo solo io e mio marito.
“Mi mandano dalla clinica neurologica” dico all’infermiera. Non me l’ha chiesto ma sento di doverle una spiegazione. La donna riprende a compilare il foglio che mi riguarda. Che ci faccio qui? Che ci faccio qui io, io che ho fatto le scale? “Ho la sclerosi multipla” mi giustifico.
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Genova mi piace. Mi piace anche l’Ospedale San Martino, mi piacciono le statue dei benefattori nei loro panneggi di pietra, il passato che portano addosso, le fisionomie sgretolate dal salino, immobili nel verde, tra saliscendi odorosi di erbe aromatiche, palme, pitosforo, mi piacciono le siepi rigogliose nonostante l’incuria, la luce potente, le indicazioni “servizi igienici a ponente” e “ingresso a levante” (gente di mare, con la bussola in testa), gli scooter ovunque, mi divertono i cartelli “vietato parcheggiare sulle aiuole”.
Dalla sala dove ci fanno aspettare potrei godermi il panorama, invece do le spalle alla finestra e abbasso gli occhi. Qua dentro siamo tutti rotti, penso. In carrozzina e non. Zoppi, storti, rattrappiti, insufficienti. Cardiopatici gravi, oncologici, asmatici seri. Un signore di mezza età fatica a respirare e allora spalanca i vetri anche se piove. Gente sola e non. Più o meno autonoma. Li guardo senza guardarli. Mi costringo con gli occhi sul modulo da compilare. Crocette. Elenco di possibili disturbi. Si, no, non so. Elenco di farmaci assunti. Sono preparata, scrivo il nome della molecola, non quello commerciale. Mi concentro sulla nota informativa. Il vaccino “Pfizer-BioNTech Covid-19” è usato al fine di prevenire la malattia… Il vaccino induce il nostro organismo ad attivare un meccanismo di protezione… Sono un po’ rotti anche gli accompagnatori, immagino. Care givers, prendersi cura. Spezzati dalla fatica. Anche loro hanno diritto al vaccino ma non per se stessi, no: per proteggere noi. I fragili.
Dalla finestra spalancata entrano zaffate umide e il rumore di un camioncino in manovra. Mio marito si ostina a stare in piedi anche se c’è posto. “Siediti, dài” dico. Non si siede. È qui per prendersi cura, nient’altro. Ripenso alle scale, alle auto che ingombravano il passaggio, alla complicazione di arrivare fino qui. Agli anni, tanti, trascorsi insieme dalla diagnosi. “La carrozzina almeno ce la siamo scampata” gli dico con gli occhi. “Scampata fino ad oggi” è il pensiero completo.
A uno dei luminari consultati all’esordio (curioso che si usi la stessa parola – “esordio” – per le malattie croniche e la letteratura), a quell’austero cattedratico che aveva appena esaminato la prima, decisiva, risonanza magnetica della mia vita, avevo chiesto cosa mi aspettava.
“Sulla sclerosi multipla abbiamo certezze diagnostiche ma non prognostiche” aveva risposto. Testuale. Pomposo. Mi arrabbiai. Poveruomo, penso adesso. Paroloni contro il terrore. Che non capissi, lo metteva in conto. D’altronde è molto difficile guardare negli occhi una giovane donna e dirle che tutta la scienza del mondo stabilisce con granitica, magnetica sicurezza che lei è indubbiamente malata, ma neanche mezza parola su come starà. Che accademici e primari non hanno le risposte che lei cerca. Se la malattia picchierà duro, se riuscirà a finire il dottorato, se potrà lavorare, se andrà ancora in montagna, se farà dei figli, se camminerà, se sentirà dolore, se perderà il senno.
Alle 11,15 qualcuno si lamenta che la finestra spalancata è davvero troppo, che così noi fragili ci ammaliamo. Una seconda infermiera accosta vetri, manovra vasistas, sposta carrozzelle. Finiamo di compilare i moduli e, scrivendo, continuiamo a guardarci senza guardarci. I rotti con le rotture che si vedono e quelli che i danni ce li hanno invisibili, nei circuiti neurali, come me, o in qualche altro distretto vitale. Invisibili oggi. Domani chissà. Solo diagnosi, niente prognosi. Vale per un sacco di malattie, penso. Vale per la vita, se ci pensate. Nessuna certezza, nessuna garanzia. E allora torno alle sicurezze della nota informativa. Componenti, eccipienti, reazioni avverse comuni, non comuni, rare. L’ultima riga è lapidaria: non è possibile al momento prevedere danni a lunga distanza. “Siamo solo cavie!” urlano sui Social i più spaventati. Io invece faccio un mezzo sorriso, ci sono abituata. Anche ai farmaci nuovi. Dove non ci sono certezze, si va per tentativi. Si va. Andare è la cosa importante. È della vita, che siamo cavie. Poi chiamano il primo.
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Raggiungendo l’ospedale, impantanati nel traffico, dal finestrino dell’auto guardavo sfilare le serrande delle botteghe abbassate, le insegne con i menù da asporto, i cartelli che indicavano il numero massimo di persone ammesse, le scritte che reclamizzavano tamponi. Nella mia testa componevo il tema che ho assegnato ai miei studenti: immaginati tra cinquant’anni e racconta a tuo nipote la pandemia. Per incoraggiarli ho detto loro che stanno – stiamo – vivendo un momento che finirà nei libri di Storia ma dietro il monitor non sono riuscita a decifrare le reazioni. Sono stufa della distanza. Se loro capiscono, io lo capisco col corpo, da un sospiro sfuggito, dal loro silenzio carico, così diverso da quello dei microfoni silenziati. Sono stufa di non andare a cena con gli amici. Stufa marcia di non poterli neanche vedere, gli amici. Ho voglia di festeggiare al ristorante, di prenotare un aereo, di abbracciare le persone. Per questo faccio il vaccino, mi ripeto. Ma non è vero. Lo capisco quando, alle 11,33, varco la soglia dell’ambulatorio dove mi faranno l’iniezione.
A mio marito, dopo, attraversando i giardini sotto la pioggia che non dà tregua, dico: “È stato bello. Ho avuto la sensazione di appartenere a una cosa più grande di me”. Non so bene cosa sia questa “cosa”. Forse le persone a cui voglio bene, forse l’Italia, forse l’Europa. Forse persino la specie umana.
“Come fare il militare” risponde lui. A suo tempo gli è toccata la leva. Racconta il concetto di “servizio”, più che di “militare”, a diciott’anni uscir di casa, scoprire che c’è altro, una dimensione più vasta, qualcosa che si potrebbe anche definire comunità. “Al militare andavano solo i maschi. Qui tocca a tutti” ribatto. Maschi, femmine, giovani, vecchi. Fragili. (Che poi, “fragili”. Conosco una con la mia malattia che si è tirata su quattro figli. E persone che attraversano indomite oceani di dolore, per le quali l’ultima parola da usare è “fragili”).
“Ciascuno fa la sua parte. Non è una buona cosa?” insisto. I benefattori di pietra luccicano di goccioline. Certo che non è possibile al momento prevedere danni a lunga distanza. E poi che ne sappiamo di che effetto fa il vaccino a chi ha la sclerosi multipla? A chi assume farmaci antirigetto? Ai diabetici gravi? Ai “fragili” tutti? Certo che non è tutto liscio. Ma ciascuno fa la sua parte e noi la nostra e per questo provo una piccola fierezza. Non parlo di Guerra, ha ragione Michela Murgia a respingere le metafore belliche. Anche se poi, quando sei nei pasticci, ti fai andar bene l’immaginario che hai. Non Guerra, allora, ma qui, 12 aprile 2021, primo piano del padiglione 3 dell’ospedale di San Martino, per me è Resistenza.