Basterebbe guardarsi intorno, al bar o in metropolitana, per scoprire qualcuna che sta lottando contro il tumore al seno. Perché oggi la malattia colpisce 1 donna su 10 e le under 50 sono sempre di più. Anche se storie e diagnosi sono diverse c’è un sentimento che unisce tutte: la voglia di cancellare, coprire le cicatrici che hanno martoriato la femminilità. Il tempo passa, si ritorna a sorridere, ma i segni sulle pelle rimangono un tabù difficile da superare. Fino a quando qualcuno ti aiuta a dare un calcio a certi timori. Il progetto della fotografa Silvia Amodio si intitola “Io ero, sono e sarò”: è una mostra, realizzata con Coop, che esporrà 50 gigantografie di 49 donne e un uomo nelle sale del Castello Sforzesco di Milano dal 19 maggio al 19 giugno (www.facebook.com/ ioerosonosaro/). «Le protagoniste si sono messe a nudo e in questi scatti a emergere con prepotenza non è il dolore, ma la bellezza, anzi la femminilità dei loro corpi, morbidi ed eleganti» racconta Silvia Amodio. «Tutte sono accarezzate da un velo bianco, che copre ma esalta le curve e assomiglia al bozzolo di una crisalide. Infatti il cancro, come dice il titolo della mostra, è stato una spartiacque tra passato, presente e futuro. E, anche se sembra una follia, ha trasformato queste donne in meglio, ha dato loro il coraggio di cambiare, di diventare quello che volevano, di realizzare desideri inconfessati. Non solo: se loro sono qui, è perché hanno scoperto la malattia in tempo. Con i loro sguardi potenti ci ricordano che la prevenzione è vita».

Marina Colombo, 53 anni, ex insegnante di asilo nido di Milano: «Giravo senza parrucca, non volevo nascondermi né essere una guerriera: pensavo solo a curarmi»

«Barbablù è arrivato nel 2009. L’ho chiamato così perché lavoravo in un asilo nido, amavo raccontare le fiabe ai bambini e avevo bisogno di visualizzare quella mia parte malata. Era estate, ho fatto una ecografia di controllo e, al posto di andare in ferie, quell’anno sono stata operata. Sono stata fortunata perché il mio corpo ha reagito bene alla chemioterapia. Certo, mi sentivo molto stanca e dovevo combattere contro l’ansia dei miei cari, però potevo reggere. Poi, pian piano, la forza iniziale si è affievolita. Ho perso i capelli ma non ho mai indossato la parrucca: non volevo nascondermi né essere una guerriera, pensavo solo a curarmi. Ogni dolorino risvegliava il terrore che il cancro tornasse. Non mi vergogno ad ammetterlo: accettare la nuova me è stato quasi più difficile che affrontare intervento e cure. In questo percorso la svolta è arrivata dallo sport. Ogni sabato la pagaia mi aspetta, faccio parte dell’associazione Pink Amazons, a luglio parteciperemo ai Mondiali per donne operate al seno. Ora il mio corpo è reattivo, in forze, e ho posato per la mostra proprio per dire a chi sta vivendo questa esperienza che siamo bellissime così, con le nostre fragilità».

Sonia Prandini, 38 anni, naturopata di Brescia: «All’improvviso mio figlio ha smesso di poppare da un seno: una settimana dopo mi hanno operata»

«Avevo compiuto da poco 33 anni e mi godevo il secondo figlio: cresceva, il fratello lo adorava, era tutto perfetto. Un giorno, all’improvviso, il piccolo ha smesso di poppare da un seno. Ho capito che qualcosa non andava e nel giro di una settimana sono passata dalla routine da mamma all’operazione. Ho avuto 2 tumori, uno genetico e uno ormonale, e ho asportato entrambi. Di quel periodo non ricordo quasi nulla, se non lo strazio della chemioterapia e la consapevolezza che tutto sarebbe cambiato. Così, una mattina, in ospedale ho chiesto un foglio dove ho scritto quello che avrei voluto fare nella vita. Alla fine della chemio mi sono lanciata per la prima volta con il paracadute, sono andata in India e, soprattutto, mi sono rimessa a studiare. Ho lasciato un posto sicuro da impiegata per frequentare la scuola di naturopatia. A giugno discuterò la tesi e spero di aprire presto uno studio tutto mio. Quando guardo questa foto vedo una donna che non ha più paura. Perché dal momento della diagnosi ho scoperto me stessa, ho eliminato il superfluo, dai vestiti nell’armadio alle persone che mi facevano soffrire».

Larisa Grosman, 53 anni, moldava, operatrice sociale a Mestre (Ve): «Nel mio Paese quando ti dicono che hai un cancro è come se pronunciassero una sentenza di morte»

«Tutto è cominciato nel 2003 con un fastidio al seno: ho prenotato una ecografia ma mi hanno messa in lista d’attesa per 6 mesi. Quando il fastidio si è trasformato in dolore mi sono rivolta a un’altra struttura. La diagnosi è arrivata subito, anche se il vero trauma è stato l’atteggiamento del medico. Ero in corridoio, si è avvicinato, mi ha detto: «Signora, lei ha il cancro, va operato subito». E se n’è andato. Sono crollata a terra, senza nessuno che mi sorreggesse. Le mie 3 figlie mi avevano appena raggiunta in Italia: in Moldova quando dicono “tumore” è come se pronunciassero una sentenza di morte. Da allora, forse per difendermi, ho subito le cure come un’automa, non desideravo pensare ai dettagli, non ne parlavo per non essere compatita. Ho rimosso tutto, ma il tumore rimaneva come un macigno, soprattutto nel mio corpo dolorante. Poi un’amica mi ha coinvolto in un gruppo di auto-aiuto e ho cominciato a “vivere il cancro”, a rielaborarlo. Il muro che avevo alzato intorno a me è crollato. Oggi sono nonna e ho un compagno che mi ama: non faccio più la badante, ho seguito un corso e da 10 anni ho un posto fisso in un centro per disabili».

È la prima neoplasia femminile

Il cancro al seno è ancora la neoplasia femminile per eccellenza. Secondo Airtum (Associazione italiana registro tumori), nel 2017 le nuove diagnosi sono state 50.500 e a oggi le italiane che l’hanno combattuto sono 766.957. L’ultimo allarme riguarda le under 50: l’incidenza in questa fascia d’età è aumentata del 41% negli ultimi 10 anni. A far ben sperare, invece, è l’indice di sopravvivenza, che arriva all’87% ed è superiore alla media europa, che si ferma all’82% (fonte Airtum).

Il nuovo test che può aiutare l’oncologo nella terapia si chiama “Oncotype” e studia il Dna del tumore al seno. A dirlo, il primo studio italiano effettuato su 1.738 persone. Nel 49% dei casi l’esame ha stabilito che poteva bastare la terapia ormonale come cura: con benefici per la qualità di vita e per i costi sanitari.