I social ci hanno cambiato la vita, non c’è dubbio. Ma in bene o in male? Nonostante ci permettano di rimanere in contatto con amici lontani, di ampliare gli orizzonti (anche lavorativi) o semplicemente di passare del tempo in leggerezza scrollando immagini, reel e stories, hanno un lato oscuro che porta con sé effetti negativi: ci manipolano emotivamente, in modo subdolo. Per indagare, abbiamo intervistato Serena Mazzini, esperta di social media strategy, insegnante di Advertising, Teoria e Metodo dei Mass media presso la NABA di Milano e autrice del testo Il lato oscuro dei social network. Come la rete ci controlla e ci manipola (Rizzoli, in uscita oggi 18 marzo).

Come i social ci hanno cambiato?

Chiunque abbia un account social lo sa: dopo una fase di “innamoramento” iniziale, con l’illusione di connettersi con chiunque e ovunque, la Rete ha finito per diventare un’enorme trappola che spesso ci costringe a essere costantemente visibili (o a guardare gli account altrui), ad andare perennemente a caccia di “like”, con confini sempre più ridotti tra pubblico e privato. Insomma, siamo finiti in un «sistema che premia il contenuto più estremo, amplifica le emozioni più forti e ci spinge a condividere sempre di più, sempre più in fretta», afferma Serena Mazzini.

Siamo tutti “topi nella gabbia” dei social

Il risultato è che tutti finiamo con l’essere “topi in gabbia”, come scrive Mazzini nel suo libro Il lato oscuro dei social network. L’esperta non ha dubbi: siamo tutti vittime di una “manipolazione emotiva”. «È la capacità dei social media di influenzare, orientare e controllare le emozioni degli utenti, spesso in modo sottile e inconsapevole, con lo scopo di modificarne i comportamenti, le scelte e di indurre desideri di consumo». Secondo Mazzini, gli utenti finiscono con lo «snaturarsi, rinunciando progressivamente alla propria autenticità pur di adeguarsi alle regole imposte dalla piattaforma». Il risultato è una rincorsa a adeguarsi a canoni estetici omologanti e linguaggi standardizzati, ma anche la trasformazione inevitabile delle persone in prodotti da consumare. «Le piattaforme arrivano a cambiarci anche nel tono di voce: pensiamo, ad esempio alle bambine protagoniste di video dedicati alla skincare: parlano tutto nello stesso modo» osserva Mazzini.

Sopravvivere in un ambiente simile implica sacrificare il proprio benessere emotivo, la propria identità più autentica e persino rinunciare a un’etica condivisa.

Il lato oscuro dei social non è nello strumento, ma nelle finalità

Il problema, infatti, è anche etico: i social sono progettati per catturare e mantenere la nostra attenzione: «Il lato oscuro non è nello strumento in sé, ma nelle finalità con cui è stato progettato: inizialmente era considerato uno spazio per connetterci, intrattenerci o creare comunità, ma oggi è solo un mezzo per trattenere il più possibile gli utenti, raccogliendone i dati e monetizzandoli con la vendita. Per questo io parlo di capitalismo della sorveglianza messo in atto da aziende che creano sistemi molto sofisticati di monitoraggio, per poi indirizzare le scelte di consumo di chi si connette ai social. Il tutto sfruttando la vulnerabilità emotiva delle persone: l’algoritmo di TikTok, per esempio, premia sistematicamente contenuti scioccanti e estremi, spingendo a mostrare anche gli aspetti più dolorosi e privati come morte o malattia».

I social amplificano le fragilità e ci condizionano anche quando siamo offline

I social non sono di per sé negativi, è l’utilizzo che se ne fa oggi a essere sbagliato. Perché sono gli utenti a finire con l’essere “usati” in modo inconsapevole. «Da un lato, cresce la sensibilità verso i rischi legati ai social network – dipendenza, ansia da performance, eccessiva attenzione all’apparenza – ma, dall’altro, questi meccanismi restano profondamente radicati e spesso invisibili agli stessi utenti. La forza dei social sta proprio nella loro capacità di sfruttare debolezze psicologiche e sociali già esistenti, amplificandole: il bisogno di approvazione, il confronto sociale costante, il timore di essere esclusi», sottolinea l’esperta.

Un fenomeno che non si limita al tempo di connessione: «I social ci condizionano anche offline perché trasformano profondamente il nostro modo di pensare, percepire noi stessi e relazionarci agli altri, tramite i modelli irraggiungibili visti online e che ci condizionano anche quando non siamo connessi. Un esempio sono i contenuti con hashtag #dieta che, a causa degli algoritmi, fanno sì che siano proposti sempre video su diete restrittive o con contenuti motivazionali che incitano a dimagrire». L’effetto è quello di creare una bolla intorno all’utente dalla quale diventa difficile uscire.

Quando si crea dipendenza (e distrazione)

Un altro effetto è di creare dipendenza e scarsa capacità di concentrazione: «L’uso dei social diminuisce la nostra capacità di concentrazione, poiché siamo abituati a stimoli continui e brevi. I social influenzano persino le nostre abitudini di consumo e i gusti personali, creando bisogni artificiali. Tutto questo avviene perché le piattaforme digitali sono progettate per catturare la nostra attenzione e creare dipendenza, molto più di quanto non avvenisse con la tv o i giornali: questi mezzi, infatti, veicolavano messaggi per tanti, mentre oggi ciascuno vede un feed diverso e diversificato, che ha lo scopo di trattenerci sullo schermo», chiarisce Mazzini.

Quando si normalizza tutto, anche la morte

Uno dei punti affrontati da Mazzini riguarda anche l’effetto normalizzazione osservabile in sfere delicate come la morte o la sofferenza: ci sono molti esempi, anche da parte di vip, che hanno usato i social per parlare delle loro malattie. O che non esitano a mettere i figli in vetrina (con il problema dello sharenting), sui propri account o su quelli creati per bambini non in grado di decidere da soli. «Ci hanno abituati a trattare ogni cosa, anche la morte, come intrattenimento, normalizzando una distanza emotiva che ci impedisce di vedere il pezzo reale delle storie dietro gli schermi. La vulnerabilità è mercificata, la sofferenza è convertita in un’altra opportunità di visibilità».

Figli in vetrina con lo sharenting: quali rischi?

Il fenomeno non risparmia neppure il rapporto tra genitori, figli e social. «Abbiamo permesso che bambini, malati, persone in situazioni di fragilità mentale o economica diventassero contenuti da milioni di visualizzazioni, e che persone senza etica traessero guadagni dalla loro esposizione», osserva ancora Mazzini. Un esempio è lo sharenting:

La condivisione sistematica da parte dei genitori di foto e contenuti riguardanti i figli, spesso molto piccoli e impossibilitati a fornire un consenso consapevole

Diverse ricerche evidenziano le implicazioni di questa pratica. Questi spaziano dalla perdita del controllo sulla propria immagine fino a cyberbullismo e sfruttamento improprio dei dati personali, «oppure alla contenutizzazione secondaria: una volta che pubblichiamo un contenuto online non ci appartiene più. L’immagine del minore può essere sfruttata per creare contenuti comici, irriverenti, ma spesso anche a sfondo sessuale: le immagini pedopornografiche per la maggior parte sono prese online dai nostri feed e manipolate. Oggi con l’AI basta una singola foto per creare deepfake e sessualizzare un minore che sta semplicemente mangiando un gelato», avverte Mazzini.

I genitori dovrebbero proteggere i figli

«I genitori dovrebbero assolutamente proteggere i figli da questa sovraesposizione, ma occorre una presa di coscienza della loro responsabilità educativa e morale. Madri e padri devono diventare modelli credibili, dando l’esempio con il loro comportamento. Se un adulto condivide costantemente online ogni aspetto della propria vita privata, sarà difficile convincere un figlio adolescente o preadolescente a fare diversamente: è necessario, invece, ridurre consapevolmente la frequenza e l’intimità delle proprie condivisioni, ed evitare di mostrare contenuti che potrebbero mettere in imbarazzo o compromettere la privacy e la dignità dei figli», osserva Mazzini, che ha contribuito alla stesura di un progetto di legge in materia.

Oltre ai divieti, serve l’educazione digitale

Ma se i figli «vanno educati fin da piccoli a comprendere l’importanza della privacy, spiegando loro perché alcune cose non vanno condivise pubblicamente», come spiega ancora l’esperta, «vietare completamente l’accesso ai giovani a queste piattaforme, come si sta cercando in alcuni paesi (come l’Australia) potrebbe essere controproducente. I ragazzi crescono oggi immersi in ambienti digitali che sono strumenti di comunicazione, ma anche veri e propri luoghi di costruzione della loro identità personale, sociale e culturale. Un divieto assoluto rischia dunque di spingerli verso piattaforme meno conosciute o più difficilmente monitorabili, aumentando di fatto i rischi invece di ridurli».

È noto ormai che la sovraesposizione precoce agli schermi generi effetti negativi (ansia, disturbi del sonno, difficoltà di concentrazione e relazionali, oltre a cyberbullismo e ricerca compulsiva del consenso), ma è «essenziale accompagnare qualsiasi restrizione con una robusta educazione digitale. Per questo è fondamentale investire in programmi educativi strutturati, che rendano i giovani consapevoli e capaci di navigare in modo sicuro. Questo vale però anche per gli adulti, perché occorre un’azione collettiva da parte di famiglie, mondo scolastico e istituzioni. L’obiettivo è far sì che si usino i social, senza essere usati dai social stessi».

Usare i social senza essere usati

Ma come riuscirci? Mazzini indica una strada molto coraggiosa: proprio come avvenuto con il fumo a inizio anni 2000, «è necessario oggi avviare un percorso simile per quanto riguarda il digitale. La comunicazione online deve abbandonare le logiche puramente commerciali, che incentivano contenuti superficiali o polarizzanti. Serve un’etica che privilegi l’autenticità e il benessere collettivo». Mazzini parla di trasformazione per «limitare il monopolio delle grandi corporation tecnologiche, proteggere i dati degli utenti e incentivare programmi educativi». Un percorso che oggi assomiglia a una vera rivoluzione.