Quando ero piccola m’immaginavo a 30 anni ingessata in tacchi e tailleur. Condannata, mio malgrado, a fare a un certo punto la “sciura”. Una cosa che mi faceva orrore. Non avevo idea del momento preciso in cui sarebbe arrivata “l’età adulta”, ma ero certa che sarebbe sopraggiunta in modo brutale e irreversibile, senza alcun margine di scelta. Un po’ come il menarca e la menopausa. Dopo, niente sarebbe stato più come prima. La stupidera degli anni giovanili sarebbe volata via. Insieme alle magliette di Snoopy e le collanine indiane, i flirt estivi e i gloss ai gusti stomachevoli. L’aspettavo. E mentre l’aspettavo crescevo, senza rendermene conto.

La versione diluita della “maggiore età”

Così mi sono trovata a 40 anni a fare i conti con la prima famigerata boa degli “anta”, totalmente impreparata. Per niente angosciata, anzi al mio meglio, ma faccia a faccia con la “maggiore età”. O meglio, con la sua versione diluita, avendo la mia generazione brevettato un nuovo format di giovinezza che inizia più o meno al compimento dei 18, quando si acquisisce autonomia giuridica, e si conclude un po’ quando ci pare. Ci sono amici, soprattutto maschi, che non l’hanno ancora conclusa. O che l’hanno rispolverata alla soglia della mezza età, convinti che bastasse ammazzarsi di corse nel parco e sesso occasionale per riacciuffarla e retrodatare l’anagrafe. Contenti loro.

Grandi e giovani: due mondi che raramente si incrociavano

Occhio, qui non si parla di invecchiare, qui si parla di crescere. Cioè, diventare adulti. Persone responsabili. Un traguardo che per i nostri genitori era del tutto naturale e scandito da tappe obbligate e ineludibili: il lavoro, il matrimonio, i figli… E che automaticamente li traghettava in un universo altro, dotato di un proprio statuto, con propri codici di comportamento, abbigliamento, gusti, abitudini, in tutto e per tutto differenti da quelli dei ragazzi. I grandi erano l’autorità, il dovere, le regole. I giovani l’incoscienza, la ribellione, la libertà. Questi due mondi raramente si incrociavano, ognuno si faceva i fatti i propri e, in caso di voluta o accidentale collisione, lo scontro risultava deflagrante e inevitabile. Ma anche necessario. Era attraverso il conflitto infatti che si riusciva a diventare grandi.

Oggi che siamo tutti ragazzi

Oggi che la contestazione non va più di moda e la paura del tempo che passa ci ha spinti a vivere in un eterno presente, trovare la linea di demarcazione che segna lo scarto tra età e generazioni è diventata impresa ardua. Siamo tutti ragazzi. Tutti facciamo le stesse cose, tutti indossiamo le felpe e le sneakers. Non siamo più genitori ma amici. Perseveriamo nel volerci divertire (in modo per fortuna meno folle e sciamannato, sia lode alle artriti e alle energie in ribasso). Reinnamorarci. Progettare. Vivere come se il futuro avesse ancora un campo largo, strade prodighe di chilometri, stupori fanciulleschi magari un po’ di seconda mano ma comunque benvenuti ed elettrizzanti. Non è che non sappiamo staccarci dall’adolescenza, non vogliamo. Non riusciamo a rinunciare allo strascico di quella magia, quando tutto iniziava.

Come diventare grandi, ora?

Facciamo bene? Facciamo male? È quello che proviamo a capire partendo da un libro di un’autrice speciale, Chiara Gamberale, firma storica della nostra Posta del cuore e grande esperta di sentimenti. Una che non si spaventa a calarsi negli abissi dei mondi interiori, nel buio di certe caverne emotive, per capire cosa succede. Districare matasse, se serve. Un’impresa che richiede coraggio e pazienza. È quello che ha fatto con il suo ultimo, bellissimo lavoro, Dimmi di te. Un viaggio dentro se stessa per capire, attraverso le storie e le voci degli altri, come si diventa grandi. Se si sceglie o capita. Ma soprattutto, cosa ci si guadagna. Ognuno ha in sé la risposta. La sua si chiama Vita. Con la maiuscola, per tanti motivi.