Quando avevo 8 anni, io che ero cresciuta in una famiglia laica mi impuntai che volevo andare al catechismo. Nessuno si sognò di impedirmelo, anzi: mi avevano lasciata libera di scegliere, e io avevo scelto. Iniziai a frequentare le lezioni con i miei compagni, e ricordo le domande con cui sconcertavamo la catechista. Se Dio è buono, perché esiste il male? In terza elementare ignoravamo di porre questioni su cui teologi e filosofi si erano accaniti per secoli. È così perché è così, ci veniva risposto, e la tautologia ci pareva difficile da comprendere, ma nella sua fissità impenetrabile ci toccava accettarla così com’era.
Il potere di una maestra di religione intelligente
A scuola, nel frattempo, una maestra di religione intelligente ci parlava delle religioni al plurale. Ricordo ancora la meraviglia di immaginare l’illuminazione del Buddha, e prima ancora, il suo sgomento nello scoprire, fuori dal palazzo splendente in cui aveva vissuto la sua prima giovinezza, l’esistenza del dolore e della morte, la vertigine dell’indigenza. Erano gli anni della guerra in Bosnia, ricordo le case sventrate al telegiornale, i bambini con gli occhi sbarrati. Ricordo le navi che dall’Albania attraccavano in Puglia, il Diario di Anna Frank che ci fecero leggere a scuola, i principini William e Harry pallidi di dolore al funerale della loro mamma come momenti in cui sentivo svelarmisi per sprazzi una sofferenza, un’ingiustizia, da cui avevo avuto fino allora il privilegio di essere protetta.
Perché esiste il male, se Dio è buono?
Continuavo a chiedere: perché esiste il male, se Dio è buono? Una volta, la mia nonna mi diede una risposta su cui mi scervellai a lungo. Ci sono disegni che ci vuole tempo per capire, mi disse, sembrare buoni ed essere buoni sono due cose diverse. Crescendo, ho sentito spesso una difficoltà, mia, personale, a ritrovarmi nelle forme codificate della pratica religiosa. Eppure, se dicessi di essere atea, se pensassi di definirmi una persona lontana dalla religione, mentirei. È un terreno di dubbi e di domande, di tormenti, qualche volta, a cui mi rimprovero di non dedicare più energie; ma su quel terreno coltivo delle abitudini che mi sono costruita negli anni, un modo di pregare che si sovrappone alle pieghe del pensiero, al peso delle parole, a una fede intermittente eppure viva.
Donne famose che credevano in Dio
Leggo ora un libro uscito da poco, Preghiera di donne, a cura di Isabella Adinolfi e Giancarlo Gaeta (Il Melangolo), che racconta il rapporto con la religione di gigantesse, troppo spesso misconosciute, del pensiero, fra cui Etty Hillesum, Edith Stein e Simone Weil, ma anche Cristina Campo e Catherine Pozzi; e soffermandomi a rifletterci, forse per la prima volta, scopro che non c’è proprio niente di eccezionale in questo percorso che sento così mio, così accidentato. Non che lo pensassi chissà quanto originale; la maggior parte delle ragazze e delle donne che conosco, a dire il vero, quando ci ritroviamo a parlare di fede – cosa che, forse per qualche pudore che sarebbe interessante decifrare, non capita troppo spesso, anzi, forse non abbastanza spesso, ma certo molto di più con interlocutrici che con interlocutori – dicono cose in cui mi rispecchio. Quello che non avevo mai considerato, e che metto a fuoco di fronte alla grandezza tenera e severa delle storie che il libro contiene, è quanto sia intuibile un filo che lega le riflessioni di una lunga catena di donne, pensatrici, scrittrici, sul divino; e quanto questa tradizione, come un fiume carsico che, invisibile, corre e s’ingrossa nel turbinio delle correnti, abbia nascostamente contribuito a costruire in me un’idea della fede e della preghiera che è legata non solo alle esperienze con la religione, ma anche al lungo apprendistato delle letture e della scrittura.
Le donne e la preghiera
Non è che gli uomini non preghino, certo. Ma per molti secoli, per le donne, la sola possibilità di ricevere un’educazione, una formazione intellettuale, ha avuto a che fare con la vocazione – scelta, imposta, adottata per necessità – alla vita religiosa o monastica; che non garantiva l’accesso alla cultura, ma in certi casi, quantomeno, lo rendeva possibile. È per questo che la tradizione del pensiero filosofico femminile, già sottile e minoritaria rispetto a quella maschile, per l’ovvia ragione che laddove gli uomini potevano dedicarsi a studiare le donne erano schiacciate fra i compiti di cura e accudimento, molte volte si sovrappone a una tradizione di misticismo. Tanto che Ildegarda di Bingen o Margherita Porete, per essere riconosciute come filosofe, e non solo come mistiche, hanno dovuto vincere non poche resistenze da parte della comunità filosofica (in prevalenza maschile, ça va sans dire). Questo appiattimento sul misticismo ha colpito anche altre pensatrici che in tempi più recenti, a costo di seri sacrifici si sono costruite un pensiero intessuto anche di riflessione religiosa, e di un’inclinazione idiosincratica, originalissima, profonda, alla preghiera. Come Simone Weil, con la sua spigolosa irriducibilità all’adesione alla Chiesa, che pure ha elaborato una delle riflessioni più profonde e radicali sul tema della fede con “L’ombra e la grazia”.
Mi sorprendo a riflettere su come le donne, tradizionalmente escluse dal discorso pubblico, abbiano creato una religione propria, privata, di pari passo con un proprio pensiero. Una voce. Etty Hillesum, la scrittrice olandese che morì ad Auschwitz – pur avendo avuto la possibilità di salvarsi – prima di aver compiuto 30 anni, lasciando, fra gli altri scritti, un Diario che è un capolavoro di limpidezza, profondità e rigore, pregava Dio quasi a prendersi cura di lui, a volerlo schermare dagli orrori e dalle angosce del presente. In un modo molto diverso, eppure segretamente parallelo, l’idea del trascinare quel compito di accudimento che è stato anche un giogo, molto a lungo, per le donne, in un gesto spontaneo che miri a dare gioia agli altri, a sollevarli dalla cupezza e dalle preoccupazioni, pulsa, vivissimo, in un meraviglioso racconto di Karen Blixen, Il pranzo di Babette. Blixen dalla luterana Danimarca si era trasferita nel cuore dell’Africa, con coraggio e determinazione leonine, e anni dopo il suo ritorno definitivo dalla terra che aveva amato, aveva scritto quel capolavoro di struggimento e di scoperta che è La mia Africa. Nel 1950 pubblica questo racconto in cui una ex cuoca cattolica fuggita dalla Parigi in sommossa per la Comune si rifugia in casa di due anziane sorelle, figlie di un pastore protestante, rese legnose da una ferrea autodisciplina, in una comunità che nulla concede al piacere e al gusto di vivere. Ma Babette, con la sua peculiare, testarda determinazione creativa, che si esprime nel campo specifico della sua arte, quella culinaria, trasfigura per il tempo di un pranzo che però nella forma eternata dalla letteratura dura per sempre, la severità punitiva della pia accolita di fedeli in un inno vero, grato, aperto, alla bellezza del vivere, del prendersi cura per impulso spontaneo, della gratitudine che è fondamento del rapporto col divino.