Era diventato “il ragazzo dai pantaloni rosa”, ma il suo nome era Andrea Spezzacatena e aveva solo quindici anni quando nel novembre del 2012 decise di togliersi la vita. Il peso della derisione, degli insulti e delle vessazioni che riceveva a scuola era diventato insopportabile, eppure da fuori sembrava tutto regolare. Ora la sua storia è raccontata ne Il ragazzo dai pantaloni rosa, il film diretto dalla regista Margherita Ferri, sceneggiato e prodotto da Roberto Proia, al cinema dal prossimo ottobre. Il trailer, presentato in anteprima nel corso del Giffoni Film Festival, lo scorso 23 luglio, è bastato a riaccendere un faro sui fenomeni del bullismo e del cyberbullismo, perché spesso è proprio il silenzio che uccide.

A volte per salvarsi basterebbero un messaggio o una parola per comunicare il disagio che si sta vivendo, ma nella realtà a prevalere è spesso la solitudine o la paura di non essere capiti. Ne abbiamo parlato con Andrea Bilotto, psicoterapeuta, presidente e fondatore dell’Associazione Italiana Cyberbullismo e Sexting, che opera in tutta Italia con uno sportello attivo per una prima assistenza alle vittime e attraverso l’organizzazione di corsi di formazione nelle scuole.

Il silenzio nemico e il ruolo dei social

Teresa Manes, madre di Andrea Spezzacatena, ha raccontato di aver scoperto il gruppo Facebook in cui il figlio veniva deriso e insultato, soltanto dopo la sua morte. Questo dimostra quanto nelle storie di bullismo il silenzio sia il vero grande nemico, è così?

«È così, infatti il nostro obiettivo come associazione è quello di far capire che non si è mai da soli e che bisogna avere la forza di chiedere aiuto perché c’è sempre qualcuno disponibile ad ascoltare. Lavoriamo su più fronti: con sportelli in presenza nelle scuole, cercando di dare un primo supporto alle vittime di bullismo e attraverso una rete di colleghi psicologi e avvocati in tutta Italia. Questo dà risultati, negli anni infatti siamo riusciti a salvare tanti ragazzi al limite. Ciò che ci dispiace di più è vedere ragazzi per cui sarebbe bastato davvero poco per essere salvati. Quindi è importante sensibilizzare sempre di più e favorire l’empatia, soprattutto nei bulli».

È possibile che i ragazzi pensino che non ci sia nessuno disposto ad ascoltarli?

«A questo proposito il padre di Vincent Plicchi, il giovane TikToker che si è suicidato in diretta lo scorso ottobre, mi ha raccontato di come il figlio, nonostante fosse da tempo vittima di cyberbullismo, non avesse dato nessun tipo di segnale. Per questo non avrebbe mai immaginato che potesse compiere un gesto estremo. Il problema è che basta veramente poco: nel suo caso si è trattato di messaggi molto forti che hanno leso la sua autostima, il tutto è stato peggiorato dal fatto che avesse moltissimi followers.

Sui social più sei visto e più è facile che tu sia preso di mira e naturalmente si crea un effetto paradossale: il tuo successo e la tua capacità vengono ribaltate in un momento qualsiasi, vieni in qualche modo danneggiato da quella che è la tua arma protettiva, quella con cui ti sei fatto conoscere in positivo peraltro.

Quindi i social hanno questo doppio lato: sono un amplificatore, uno strumento distruttivo di massa perché poi è impossibile controllarli. Per questo cerchiamo di far capire ai ragazzi che quando si diffonde qualcosa su internet è impossibile poi riuscire a fermare del tutto un’immagine e un messaggio, quindi è uno strumento molto potente».

Diffamazione e sexting: due fenomeni in aumento

Qual è la tipologia di bullismo più frequente?

«La maggior parte delle volte ci contattano per casi di diffamazione o sexting, si tratta di due fenomeni in aumento. Nel primo caso c’è una persona che viene presa di mira dai compagni e gli insulti si diffondono sui social. Per quanto riguarda il sexting, ovvero l’invio di foto intime a un’altra persona, ci rendiamo conto che spesso i ragazzi cercano di attrarre l’altro e agiscono con innocenza, non immaginano che quel materiale potrebbe essere girato a terze persone e finire su diverse piattaforme. Recentemente ci è capitato un caso di deep nude in un centro estivo: i ragazzi avevano preso le foto delle compagne e attraverso un’applicazione che usa l’intelligenza artificiale le avevano rese nude. Le ragazze, che avranno dodici o tredici anni, erano chiaramente molto spaventate perchè queste immagini sembravano davvero reali e temevano che potessero rovinarle in qualche modo».

Bullismo e cyberbullismo: c’entra la fragilità?

Uno dei commenti più frequenti nei casi di bullismo è che i ragazzi che ne sono vittima dovrebbero essere più forti, ma sono davvero più fragili?

«Questa sembra più una giustificazione, come per dire che la vittima se l’è cercata o che non è in grado di difendersi. Ma nessuno va a cercare un bullo che gli faccia del male. Mi preoccupa che spesso sono i docenti, i dirigenti scolastici o le forze dell’ordine a sostenere che i ragazzi devono essere più forti e imparare a difendersi.

La violenza non può mai essere giustificata, anche se oggi sembra quasi legittimata

A proposito, il bullismo è un reato a tutti gli effetti con pene che variano dalla sanzione alla detenzione a seconda dei casi. Attualmente però si sta cercando di favorire una cooperazione tra ambiente scolastico e familiare. Quanto pesa la famiglia di provenienza di un bullo?

«Chiaramente i genitori sono figure di rispecchiamento, quindi è possibile che un ragazzo tenda a ripetere verso gli altri le modalità di relazione che vede in famiglia, perché è portato a ritenerle valide. Per questo la sensibilizzazione e l’educazione sui fenomeni del bullismo deve partire dai genitori».

Il bullismo non riguarda solo i ragazzi

Secondo l’Osservatorio Indifesa 2023 1 adolescente su 2 è vittima di bullismo o cyberbullismo, dopo l’adolescenza la situazione migliora?

«In realtà il bullismo si manifesta già alla scuola primaria tra i bambini di nove o dieci anni. Io sono convinto che dopo l’adolescenza cambino le modalità, la forma. Molti ragazzi della scuola superiore ci dicono che il bullismo riguarda i più piccoli, ma secondo me è più forte nel periodo del liceo: è lì che i ragazzi fanno davvero difficoltà a parlare con qualcuno, a raccontarsi e pensano di essere sbagliati se bullizzati, perché se non riescono a difendersi si sentono fragili, si vergognano. Inoltre non è infrequente nemmeno tra adulti, tendo infatti a parlare di bullismo verticale e orizzontale».

Che significa?

«Il bullismo verticale è quello che avviene nelle grandi aziende: è esercitato dai capi nei confronti dei dipendenti proprio con lo scopo di escludere e di farli sentire inutili. Nessuno lo dice, ma ci sono tante aziende che ci chiamano per fare formazione interna a riguardo, però non vogliono che si sappia per non dare una brutta immagine dell’azienda all’esterno. Il bullismo orizzontale invece è quello attuato tra colleghi alla pari».

Educare gli adulti

Come si educano gli adulti rispetto al bullismo?

«Devo ammettere che è molto difficile. Per questo abbiamo pensato a una scuola di formazione per i genitori, in cui parlare di rispetto, di educazione e di come trasmettere certe informazioni ai figli. Se nessuno li forma magari non lavoreranno mai sulla loro genitorialità. Noi cerchiamo di lavorare soprattutto sui padri e le madri, infatti facciamo più incontri con loro che con i ragazzi. Questi spesso non hanno che modelli negativi, per questo coinvolgere le famiglie è fondamentale, non si possono ignorare. Lavorare solo con i più giovani è inutile».

Che consiglio dà ai genitori?

«I ragazzi molto spesso dicono che i genitori non li ascoltano o che c’è poca empatia, affermano che avrebbero bisogno di una persona che li possa aiutare a capire il loro dolore che a volte è nascosto. Per questo avere una persona esterna, magari uno psicologo di riferimento è fondamentale, anche quando il genitore non nota segnali particolari».