Ho fatto un sogno a occhi aperti. Anzi, più che un sogno, era un corto, girato in presa diretta nella mia testa, mentre mi muovevo come una tarantolata in casa di ritorno da una giornata pesantuccia. Mentre io facevo cose, aprendo come una furia la lavatrice del mattino per stendere i panni (ovviamente già asciutti e accartocciati nel cestello), sciacquando i piatti di qualcuno (la figlia “sotto esame”? Il suo fidanzato? Un ladro?) col sugo marmorizzato nel pentolino, sfamando il gatto, innaffiando l’ortensia, buttando un occhio ansiogeno nel frigo per allestire un’ipotesi di cena, di là mio marito strimpellava qualcosa e una delle ragazze ripeteva con tono monocorde gli appunti per l’ultimo appello di sessione. Immaginate questa pazza che rimbalza ansimante per le stanze come la pallina di un flipper, mentre il resto della popolazione domestica, micio compreso, continua placida le proprie attività.

Imbufalita dalla situazione e da me stessa, mi sono vista la scena al contrario. Un uomo che rientra stanco la sera – un manager, un dirigente, un povero cristo qualsiasi appesantito da una gragnola di riunioni e seccature di varia natura – che posa su una sedia la sua 24ore e, invece di sbracarsi sul divano, fa tutto il siparietto poc’anzi illustrato: i panni, i piatti, i fiori sul balcone. L’ho visto, nitido, come su uno schermo, con la fronte imperlata di sudore e le maniche arrotolate fino al gomito per affondare le braccia nel lavello, la cravatta stazzonata che sventola qua e là, gli occhi strabuzzati per la stanchezza e il nervoso mentre invoca invano la moglie che serafica titilla le corde di una chitarra intonando Joan Baez. Tlin-tlin-tlin. Lì Woodstock, dall’altra parte Apocalypse Now.

Imparare a delegare in casa

Un film distopico che al solo pensiero ci fa sorridere o inorridire. Come se fosse follia che un pover’uomo che già si sobbarca onori e oneri dell’intera famiglia si debba pure fare carico della lavasciuga e delle crocchette. Un uomo che torna a casa stanco la sera si deve riposare! Mi sembra logico, no? Ha già fatto il suo. Purtroppo la regola non vale per noi. Non basta fare il proprio per sentirsi sollevate dal resto. Ma qui non starò a recriminare, puntualizzare, puntare il dito. Essendo oltretutto tra le poche fortunate che si possono vantare di avere uno dei primi prototipi di marito collaborativo, uno di quelli che cucinano, fanno la spesa, buttano la spazzatura… Ma solo quando hanno tempo, voglia eccetera. Questo è il punto: noi dobbiamo, loro possono. Noi siamo le titolari, loro aiutano.

Per cambiare le cose bisogna fare in modo che questo aiuto, primo, ci sia sempre. Cioè, non sia un optional. Secondo, che sia così frequente da trasformarsi da eccezione in norma. Tanto da non chiamarsi più nemmeno aiuto ma condivisione. Da applicare non solo ai partner ma anche ai figli, più vari ed eventuali conviventi. Per riuscirci dobbiamo fare una cosa che ci viene difficilissima: imparare a delegare. Invece di mugugnare mentre scrostiamo la pentola, apriamo la bocca e diciamola la frase magica: fallo tu! Perché sei tu che hai sporcato, perché è tua la camicia da stendere, perché stavolta tocca a te, perché non stai facendo niente mentre io ho altro da fare, perché sono stanca, perché è giusto così. L’ultimo livello prevede: perché non c’ho voglia. Una cosa che detta così sembra quasi oltraggiosa. Ma che è in realtà la motivazione di base per cui facciamo tutto noi. Gli altri non hanno voglia. Non gli compete…

Delegare e accettare l’imperfezione

Se un grullo parlante (non è un refuso, volevo proprio dire grullo), dovesse insinuarsi nella centralina della vostra smania di controllo o delirio d’onnipotenza per dirvi che poi vi toccherà rimetterci mano, quindi tanto vale fare voi direttamente, schiacciatelo contro il muro. Meglio una cosa fatta male che una cosa non fatta. Lo so che è difficile prendere confidenza con questo concetto, ma provateci. L’estate può essere un buon momento. È la vostra ansia da prima della classe che vi frega. Il vostro inutile perfezionismo. Non fate le brave. Per una volta, per vincere la partita, bisogna mettersi in panchina. Oppure su un’amaca, vedete voi.