A un certo punto, ho iniziato a pesare il tempo sulla bilancia della produttività. Credo sia successo con l’ingresso nell’età adulta. Le ore spese lavorando, facendo sport, cucinando mi provocavano appagamento. Le altre mi lasciavano addosso una sensazione di ansia, angoscia. Lo stesso sonno mi scaraventava con violenza nel mondo della veglia a orari improbabili. L’idea di essere operativa quando tutti ancora dormivano mi dava un vantaggio competitivo e un benessere fisico e mentale tali da farmi credere di essere dalla parte giusta della storia. Avevo 20 anni e all’alba scrivevo i miei articoli migliori oppure cucinavo le mie famose brioche per portarle ancora calde in ufficio. E quando viaggiavo le ore di veglia aumentavano ancora: ci sarà tempo per riposarsi, mi dicevo.
All’improvviso, qualcosa è cambiato. All’alba dei 40 anni le notti hanno iniziato a essere più lunghe. Il sonno mi tratteneva a sé. Ho pensato di avere un problema; forse era l’età che avanzava o le mie passioni che si affievolivano. La minore produttività delle mie giornate mi provocava un senso di colpa tale da calare un’ombra sulla mia nuova condizione. A peggiorare la situazione, i commenti degli amici e della mia famiglia: «Ma cos’hai, non sei più tu!». Avevo solo iniziato a dormire come tutti e la percezione negativa che questa nuova condizione mi lasciava addosso era dovuta alla convinzione di essere passata dalla parte sbagliata della storia.
Ma è davvero così? L’artista Jenny Odell sostiene che sia l’idea capitalistica del tempo a tenerci sotto scacco. E che l’unico modo di sottrarci è imparare a non fare niente e a non sentirci in colpa. Nel suo libro, che si chiama proprio Come non fare niente. Resistere all’economia dell’attenzione (Hoepli), Odell fa rientrare nel dolce far nulla tutte le attività che non producono valore secondo gli standard del capitalismo. «Una categoria enorme che include la cura di sé, la convivialità e il semplice piacere di essere vivi» racconta in un’intervista.
Ma se guardo alla mia agenda quotidiana, mi accorgo di aver trovato sempre posto per queste attività, dagli aperitivi con le amiche allo sport, avendole equiparate a uno stato produttivo. Ciò che ho sempre scientemente sacrificato e demonizzato è il sonno. Il regalo che in questo lungo break festivo sto cercando di farmi è dunque questo. Non il sonno colpevole che mi afferra alla sera e non mi lascia più andare al mattino. Ma quello scelto, cercato, goduto fino in fondo. I riposini pomeridiani, gli occhi che si chiudono sulla poltrona con la musica che continua a cullarmi, le mattine pigre in uno stato di semicoscienza. Soprattutto, ciò a cui mi sto allenando è provare appagamento e soddisfazione per essere finalmente riuscita a non fare nulla.