I cambiamenti importanti li leggi nei dettagli. Che in montagna fosse successo qualcosa di irreparabile l’ho capito quando, qualche anno fa, i maestri di sci hanno cominciato a presentarsi vestiti con lunghe mantelle impermeabili per ripararsi dalla pioggia durante le lezioni. Non era un vezzo, ma un’esigenza. La prima volta che ho visto la pioggia in montagna durante la stagione dello sci era la fine degli anni ’90. Pioveva ai piedi del Monte Bianco, ma era aprile e gli impianti erano ancora aperti. La neve non era mai mancata e le piste di rientro le facevi anche in primavera, schivando giusto qualche sasso negli ultimi metri. C’erano gli anni buoni e quelli meno: il problema della mancanza di neve in montagna, però, non era il “se” ma il “quando” e la pioggia di Pasqua qualcosa di cui stupirsi. Da allora sono passati 25 anni, che sulla carta sembrano pochi ma se li guardi nella prospettiva del cambiamento climatico sono un’era geologica.

Manca la neve in montagna: scieremo ancora in futuro?

Lo dicono i numeri di tutti gli studi scientifici sulla salute delle Alpi: secondo uno pubblicato nel 2023 su Nature Climate Change dai ricercatori dell’Università di Padova, in montagna manca la neve e la sua durata media è diminuita di 36 giorni e questo non ha precedenti negli ultimi 600 anni. Per stabilirlo, sono stati analizzati i 572 anelli di un albero della Val Ventina. Ma non serve studiare gli alberi, basta guardar fuori. Oggi la pioggia in montagna è una costante per tutto l’inverno, anche sulle piste più alte. L’aumento delle temperature dovuto al cambiamento climatico, dicono i dati raccolti dal CNR e pubblicati sul Journal of Mountain Science, sulle Alpi corre a velocità tripla rispetto alla media globale: 0,5 gradi in più ogni 10 anni, contro lo 0,16 della media globale. A queste condizioni, per quanto ancora potremo permetterci di sciare sulle nostre montagne?

La risposta, secondo uno studio del 2023 dell’Università di Grenoble pubblicato sempre su Nature Climate Change, è tutt’altro che rassicurante: senza innevamento artificiale, il 53% delle stazioni sciistiche europee sarebbe già chiusa. Se i trend di crescita della temperatura continuassero così, nel giro di 25 anni la stessa sorte toccherebbe al 98% delle stazioni. Ad abbassare le percentuali al 27% e 71% provvede la neve artificiale che però, spiegano i ricercatori, ha un effetto boomerang impossibile da ignorare in termini di emissioni e impatto ambientale.

Intanto, la crisi della snow economy è già realtà. A tracciarne il perimetro sul territorio italiano ha provveduto Legambiente, con il report dettagliatissimo Neve diversa, appena pubblicato: sono 260 le strutture dismesse (176 sulle Alpi e 84 sulla dorsale appenninica), 177 quelle chiuse temporaneamente (39 in più rispetto al report precedente), 99 quelle aperte a singhiozzo. A queste si aggiungono gli impianti tenuti aperti con “accanimento terapeutico” che, cioè, sopravvivono solo grazie a forti iniezioni di denaro pubblico.

Se manca la neve, che faremo in montagna?

«Le montagne sono rimaste senza neve» spiega Vanda Bonardo, responsabile nazionale Alpi di Legambiente e del dossier Neve diversa. E non è una buona notizia per celebrare la Giornata mondiale della neve del 19 gennaio.

«Ne cade meno e dura meno a lungo. Per far funzionare un impianto sciistico sono necessari almeno 30 centimetri per 100 giorni, cosa che con le condizioni climatiche attuali spesso è un’utopia. E le conseguenze del riscaldamento globale sull’industria dello sci sono pesantissime: le località più basse spesso non riescono nemmeno a sparare con i cannoni perché le temperature sono troppo alte. Dove ci si riesce, bisognerebbe chiedersi se abbia senso sciare su una strisciolina di neve artificiale con tutto brullo attorno».

Uscire da questo vicolo cieco, dice Bonardo, non è semplice. «L’industria dello sci ha tolto dalla povertà tanta gente, ha tenuto vive le montagne e le ha protette dallo spopolamento. Questa non è una guerra allo sci. Ma dobbiamo adattarci al fatto che in montagna manca la neve: le località più a bassa quota dovrebbero chiudere le piste e impostare le loro politiche su soluzioni differenti, ma anche quelle più in alto dovrebbero iniziare a diversificare. La montagna d’inverno si può vivere in molti modi: camminando o usando le ciaspole, per esempio. Senza dimenticare che è un luogo non solo di sport, ma anche di relax, di benessere, di cibo, di eventi culturali». E con le estati sempre più calde, può diventare un’alternativa preferibile al mare e avere una stagionalità più lunga del canonico Ferragosto. «La montagna deve ambire a un turismo diluito in tutto l’anno» sottolinea Bonardo.

Risolvere la crisi della snow economy

Ma di cosa parliamo quando parliamo di montagna? Secondo Michele Sasso, giornalista e autore di Montagne immaginarie, appena uscito per Verdenero Inchieste, l’idea che abbiamo è molto lontana dalla realtà. «L’immagine che continuiamo a vendere ai turisti è una cartolina ingannevole: neve, natura incontaminata, silenzio e benessere. E invece la montagna oggi è schiacciata dal peso del riscaldamento globale, dell’urbanizzazione e del turismo intensivo». Per raccontare questo paradosso, ha setacciato le Alpi e gli Appennini, puntando i riflettori sulle distopie ad alta quota e sugli esempi virtuosi di adattamento.

«Gli esperti dicono che le Alpi diventeranno brulle come le montagne afghane: la snow economy è destinata a finire, che ci piaccia o no, ma ovunque si vede un accanimento terapeutico con fondi ingenti destinati alla costruzione di nuove piste e nuovi bacini per l’innevamento artificiale».

Per contro, spiega, non mancano esempi di comunità resilienti e visionarie che hanno inventato modi nuovi di costruire il futuro. «Tra Alpi e Appennini ci sono centinaia di casi. Un esempio virtuoso è Dossena, in Val Brembana. A un’altitudine di 1.500 metri recuperare le piste da sci era un’impresa senza senso e così un gruppo di ragazzi ha cominciato a riqualificare le miniere, poi ha promosso dei percorsi turistici e riaperto una vecchia locanda». Esempi di questo tipo, dice, ce ne sono tanti e non solo in Italia. «La Svizzera da anni ormai ha vietato la costruzione di impianti sotto i 2.000 metri. Da noi, invece, abbiamo il progetto di una pista da sci con vista sullo Stretto di Messina a 900 metri d’altezza. E la cosa più folle è che spesso progetti del genere accedono a fondi del Pnrr. Altrove gli impianti dismessi vengono smontati, da noi restano in piedi». Sotto gli occhi di tutti, come ferite aperte.