È giusto (o obbligatorio) dire di aspettare un figlio durante un colloquio di lavoro? Si può essere licenziate per non averlo fatto? E quali altre domande sono lecite o “illegali”? A chiederselo sono in molte, dopo il caso di una donna di 27 anni di Firenze, assunta dopo aver rivelato di essere in dolce attesa, agendo «per correttezza». Ma è giusto parlare del proprio stato di salute? E cosa può chiedere il titolare di un’impresa in fase di assunzione o promozione? Abbiamo girato le domande all’avvocata Marisa Marraffino.
Al colloquio si deve dire di essere incinta?
No. A dirlo è il Codice delle Pari Opportunità (decreto lgs n.198/2006), che spiega come non c’è alcun obbligo d’informare il datore di lavoro o chi si occupa delle selezioni per le assunzioni. È vietata, infatti, «qualsiasi discriminazione per quanto riguarda l’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione». Una sentenza della Cassazione (n.9864/2002) ha anche stabilito che lo stato di gravidanza non deve essere comunicato nemmeno se è quasi al termine o se la gestazione copre una parte rilevante della durata del contratto a tempo determinato.
Cosa succede se si nasconde una gravidanza?
Nulla, proprio perché la candidata non è tenuta a comunicare l’eventuale “stato interessante”. Quando questo sarà comunicato al datore di lavoro non è ammesso alcun provvedimento o sanzione disciplinare, come il licenziamento: questo, infatti, è stato considerato illegittimo e discriminatorio da un’altra sentenza della Cassazione (n. 2244/2006).
Si può chiedere se si vorranno figli?
No. Sempre in base al Codice delle Pari Opportunità, che non ammette distinzioni tra uomini e donne, non è possibile porre domande che riguardino la gravidanza, ma neppure la famiglia o lo stato sentimentale, quindi non è lecito chiedere a una donna se ha intenzione di fare figli, temendo che possa restare a casa in maternità.
Si può chiedere se si è sposati o licenziare in caso di nozze?
No, in sede di colloquio di lavoro non si può chiedere se si è sposate o single. Il Codice vieta anche di inserire nel contratto clausole che ne preveda la risoluzione o il licenziamento in caso di matrimonio che avvenga nel periodo che intercorre «dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio a un anno dopo la celebrazione». Sono nulle anche le dimissioni presentate dalla lavoratrice nello stesso periodo, salvo che siano confermate dalla dipendente entro un mese alla Direzione territoriale del lavoro. Insomma, non vale l’escamotage di “spingere” a lasciare il lavoro volontariamente. Non si può neppure chiedere da quanto si è sposati, come a voler sondare il terreno per capire se si ha intenzione di allargare la famiglia, e non è legale selezionare il personale sulla base dell’orientamento sessuale.
Valgono le stesse regole anche per i tirocini?
Sì, gli stessi divieti sono previsti non solo per il colloquio di assunzione, ma anche per iniziative che riguardino la formazione, l’orientamento il perfezionamento della propria posizione lavorativa, l’aggiornamento o la riqualificazione professionale. Il Codice, infatti, parla di promozione «a tutti i livelli della gerarchia professionale». Questo significa che certe domande non sono ammesse neppure per i tirocini, per evitare forme di discriminazione che agevolino gli uomini nell’accesso al lavoro e alle possibilità di fare carriera.
Cosa fare se non si viene assunti perché si vuole una famiglia?
Queste situazioni sono sempre molto difficili da provare, ma in caso di bisogno ci si può rivolgere alle Consigliere di Parità, sia provinciali che regionali: «Sono le uniche figure istituzionali che possono agire in giudizio, quindi in Tribunale, dove si può fare causa per discriminazione indiretta. Qui, portando le testimonianze di colleghi o altri candidati, si inverte l’onere della prova, cioè sarà il datore di lavoro a dover provare di non aver seguito una condotta discriminatoria» spiega Adriana Ventura, ex Ispettore del Lavoro, poi Consigliera di Parità a Lecco e oggi a Rimini.
Quando bisogna avvertire il datore di lavoro di essere incinta?
In base al Testo unico a tutela della maternità e della paternità (D.lgs. 151/2001, art.8), l’unico obbligo di comunicare la gravidanza scatta in caso di rischi per la salute, come l’esposizione a radiazioni ionizzanti. Va detto che lo stesso Testo raccomanda ai datori di lavoro di informare tutte le lavoratrici in età fertile di eventuali rischi presenti nell’ambiente di lavoro o relativi alle attività svolte e della necessità di segnalare lo stato di gravidanza, non appena ne vengano a conoscenza.
Il datore può chiedere accertamenti sulla gravidanza?
No. Come chiarito ancora dal Testo unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro (n. 1133/1999, art. 41, co. 3 lett. B), il datore di lavoro non può chiedere esami medici per accertare – prima dell’assunzione – se la candidata sia incinta o meno. La Cassazione lo scorso anno ha anche stabilito che è discriminatorio non rinnovare il contratto a termine ad una propria dipendente soltanto perché incinta, confermando invece i colleghi che si trovano nella sua stessa condizione occupazionale (sentenza n. 5476 del 26.02.2021).
Cos’altro è vietato chiedere durante il colloquio?
Tra le altre domande illecite o persino illegali ci sono quelle che riguardano lo stato di salute ed eventuali malattie (croniche, depressione, ecc.). È ammesso, invece, chiedere se ci sono disabilità, ma solo nel caso in cui l’assunzione rientri nell’ambito delle categorie protette: in questo caso, la lavoratrice deve dichiararlo nel curriculum perché ha anche diritto ad accedere a percorsi agevolati. Non è consentito, invece, fare domande sul credo religioso al fine dell’assunzione, come stabilito dallo Statuto dei lavoratori, così come su opinioni politiche o precedenti rapporti con altri datori di lavoro (opinioni, episodi negativi, sanzioni disciplinari, ecc.). Le legge a riguardo è chiara: «È fatto divieto alle agenzie per il lavoro e agli altri soggetti pubblici e privati autorizzati o accreditati di effettuare qualsivoglia indagine o comunque trattamento di dati ovvero di preselezione di lavoratori, anche con il loro consenso, in base alle convinzioni personali, alla affiliazione sindacale o politica, al credo religioso, al sesso, all’orientamento sessuale, allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza, alla età all’handicap, alla razza, all’origine etnica, al colore, alla ascendenza, all’origine nazionale, al gruppo linguistico, allo stato di salute nonché ad eventuali controversie con i precedenti datori di lavoro, a meno che non si tratti di caratteristiche che incidono sulle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa o che costituiscono un requisito essenziale e determinante ai fini dello svolgimento dell’attività lavorativa. È altresì fatto divieto di trattare dati personali dei lavoratori che non siano strettamente attinenti alle loro attitudini professionali e al loro inserimento lavorativo».