Ho fatto corsi di formazione in America, preparandomi a possibili interventi di contenimento nucleare-batteriologico-chimico, ho lavorato in condizioni estreme in Afghanistan e negli Emirati Arabi, ma questo è il momento più intenso della mia vita: non ci sono turni, si è disposizione 24 ore su 24, pronti a intervenire su richiesta della Protezione Civile per trasportare contagiati da coronavirus in gravi condizioni dagli ospedali dove non c’è più posto in terapia intensiva a quelli in grado di ospitarli e curarli. È un lavoro molto delicato quello che svolgo all’IMAS, l’Istituto di Medicina Aerospaziale dell’Aeronautica Militare a Roma: mi trovo a caricare a bordo dei velivoli persone incoscienti e intubate. Una volta in volo vanno controllati e seguiti con respiratori, tac, monitor e, se servisse, defibrillatori. I nostri piloti sono bravissimi, limitano al massimo possibili disagi da turbolenze, ma il volo è una fase delicata, bisogna evitare ai pazienti possibili traumi prima di affidarli ai colleghi civili, una volta a terra. Proprio come accaduto con Niccolò, il 17enne che siamo andati a prendere in Cina per riportarlo a casa, a febbraio.
Quel giorno siamo partiti all’alba dal 14° Stormo a Pratica di Mare, abbiamo volato per 13 ore fino a Wuhan, atterrando al terminal 311: me lo ricordo come se fosse ieri! Ci aspettavano le autorità cinesi e naturalmente Niccolò. Il senso di responsabilità per la nostra missione era molto forte: prima della partenza avevo controllato più volte coi colleghi di avere a bordo tutto quanto potesse servire alle sue necessità, sapevamo di avere gli occhi dell’Italia addosso, a partire dai genitori di quel ragazzo di appena 17 anni. L’emozione era tanta, era come se fosse mio fratello perché io ho una sorella della stessa età. Lui, però, stava bene anche se era visibilmente stanco e provato. Mi è rimasta impressa la sua prima reazione: d’istinto avrebbe voluto abbracciarci tutti e non smetteva di ringraziarci, di mostrarci un’enorme riconoscenza. Dopo i controlli sanitari, lo abbiamo caricato a bordo con una barella all’interno di una struttura di biocontenimento chiamata RACK, con tutte le apparecchiature necessarie per il monitoraggio e l’eventuale intervento medico. Ma gli abbiamo anche fatto trovare da mangiare e da bere. Durante il viaggio a me e agli altri componenti del team ha raccontato quanto gli era accaduto, i tentativi di tornare in Italia falliti per ben due volte e di come la situazione si fosse sbloccata solo con il nostro arrivo. Anche per noi è stata un’esperienza umana molto forte e spero che un giorno venga a trovarci a Pratica di Mare, mi piacerebbe poterlo rincontrare.
Il rimpatrio di Niccolò è stato seguito dai media ma ogni giorno, specie in questo periodo di emergenza, mi trovo a vivere emozioni intense. Ogni intervento richiede la massima attenzione, a partire dalla vestizione: dobbiamo indossare dispositivi di massima sicurezza, come quando interveniamo per casi di ebola o tubercolosi: una tuta che resiste agli agenti biologici e a eventuali strappi, occhialini, mascherina FPP3 e due paia di guanti, quelli classici da lavoro sanitario e quelli chirurgici più spessi e lunghi quasi fino al gomito, che resistono bene anche alle operazioni di decontaminazione successive agli interventi. Ogni volta ci vogliono circa 10 minuti per vestirci, poi dobbiamo fare il cosiddetto body body check: ci controlliamo a vicenda per verificare che non ci siano punti scoperti.
Fortunatamente posso contare sull’appoggio dei colleghi: siamo un team di una ventina di persone, come una classe di liceo, molti affiatati. Io sono l’unica donna, ma devo dire che mi sento molto fortunata: sono tutti gentiluomini, non solo dal punto di vista professionale, ma anche umano. Ci confrontiamo e ci sosteniamo. Poi posso sempre contare sul supporto della mia famiglia: il mio fidanzato, mio padre e mia madre, che mi dice sempre che sono il suo “cuore viaggiante”. Li tengo aggiornati sulla mia attività e lei, che lavora in un asilo nido, mi manda via WhatsApp i disegni realizzati dai suoi bambini, nonostante siano a casa per via dell’isolamento sociale: sono dedicati a noi e questo ci dà forza per affrontare ritmi intensissimi.
Gli affetti e la famiglia sono importantissimi e non posso non pensare che se sono qui a fare questo lavoro e ad aiutare chi sta male è grazie a mia nonna. È stata lei a darmi il coraggio per partecipare al concorso per entrare in Aeronautica. Fin da bambina avevo la passione per il volo, gli aerei e gli elicotteri: mi facevo portare lungo il perimetro dell’aeroporto di Ciampino e passavo ore a guardare atterraggi e decolli. A casa sono piena di modellini e poster, ma avevo poca fiducia in me stessa. A darmela è stata appunto mia nonna, che mi ha presentato il testo del concorso per infermieri marescialli sotto il naso. Ci ho provato, è andata bene e non mi ha fermata più nessuno! Oggi so che questa è la mia strada: ricordo la prima missione per il trasporto di un paziente con ebola dal Senegal a Roma, nel 2015. Un po’ di paura l’ho provata: per quanto si ripassino le procedure mille volte e si conosca la teoria a memoria, quando poi si è sul campo si sa che potrebbe capitare anche un imprevisto. Ma ogni volta che mi alzo in volo provo la stessa emozione: allaccio la cintura, mi ancoro al seggiolino e ascolto il rumore del motore. Solo dopo il decollo indosso le cuffie da volo. Mi rendo contro dell’importanza di ciò che faccio: siamo gli unici in Europa a svolgere questo tipo di missioni, insieme al Regno Unito. Soprattutto in questo periodo alle amiche dico: dobbiamo tenere duro. Il nostro contributo si unisce a quello di tutta la Difesa che, come ha spiegato il ministro Guerini, è impegnata nell’emergenza Coronavirus a 360°. Ci sarà tempo, poi, per tornare alla normalità.
Cosa farò quando finirà l’emergenza? Sicuramente tornerò a correre, l’ho sempre fatto, dai 10 ai 20 km. Adesso mi manca, ma appena possibile tornerò alle Terme di Caracalla a calcare il terreno rosso. E naturalmente abbraccerò il mio fidanzato e i miei genitori che continuano a chiedermi: quando ti vedremo?.