Che “parlare” male del capo sui social fosse pericoloso lo si sapeva: tutto ciò che viene scritto su Facebook, WhatsApp e simili lascia sempre una traccia e può ritorcersi contro chi lo ha condiviso, anche soltanto tra “amici”. Ma ora una sentenza della Cassazione sgombra il campo da ogni equivoco: offendere qualcuno anche in una chat privata o di gruppo è reato, minori compresi. Per i Supremi giudici, che sono intervenuti in un caso avvenuto a Bari, si tratta di diffamazione proprio come già accadeva in altri contesti, sia verbali che scritti, e soprattutto sui social per i quali vale l’aggravante del fatto che si agisce in un contesto pubblico. Nessuno sconto, dunque, in ragione della “privacy”.
Il pronunciamento della Cassazione è importante perché costituisce un precedente al quale, d’ora in avanti, ci si rifarà in casi analoghi. Non mancheranno le polemiche anche perché fino a pochi mesi fa, un caso simile era finito in modo opposto: nessun licenziamento al dipendente che aveva offeso il datore di lavoro in un gruppo Facebook. Oggi, invece, si rafforza il concetto contrario: la rete non lascia spazio alla riservatezza: “Io consiglio sempre la massima prudenza, perché scrivere sui social è come farlo su un muro pubblico” avverte l’avvocato Marisa Marraffino, esperta di internet, che aggiunge: “Attenzione anche agli screenshot: anche quando si inviano messaggi a una sola persona, se si allega lo screenshot relativo a qualcuno che non sia l’interlocutore, si può incappare in una denuncia” che può costare caro in termini di condanna, licenziamento o multa salatissima.
Diffamazione o ingiuria esistono anche sui social
“La privacy è un diritto che va controbilanciato con altri diritti, come quello alla reputazione o all’identità nel caso di diffamazione o ingiuria” spiega Marraffino. Tra i precedenti di interventi dei giudici per offese o espressioni postate su Facebook si ricordano, ad esempio, il licenziamento di un dipendente che nel 2014 pagò col posto di lavoro un “like” di troppo a un apprezzamento pesante nei confronti del capo; o quello di una dipendente dello stabilimento della Perugina-Nesté di Perugia che aveva criticato – sempre su Facebook – il caporeparto e che se l’era cavata con un provvedimento disciplinare grazie all’intervento dei sindacati. Un lavoratore di Torino, invece, nel 2015 ha perso il posto per aver dato della “milf” a una collega sul social blu. Ma, allora, quali sono i reati nei quali si può incorrere con i propri post sui social? Cosa si può scrivere e cosa no?
I reati che si rischiano sui social
Commentare in modo pesante, diffamare, girare frasi o – peggio ancora – filmato e foto di persone a loro insaputa sono tutti comportamenti puniti dalla legge. Ecco come.
– “Sparlare” nei gruppi Whatsapp: attenzione a quello che si scrive, perché si corre il rischio di incappare nel reato di diffamazione, ossia nell’offesa della reputazione di una persona non presente, punita in base all’art. 595 del codice penale. I messaggi, anche privati, possono diventare “corpo del reato” ed entrare a far parte degli atti di un processo, sia sotto forma di screenshot sia tramite il cellulare stesso.
– “Like” e post offensivi su Facebook: come dimostrato in diversi casi, se le offese avvengono tramite social, e in particolare Facebook, si può configurare l’aggravante della “pubblicità” dell’offesa, che rimane leggibile da più persone (punita con la reclusione fino a 7 anni).
– Apprezzamenti pesanti via sms: anche quando si scrive in chat private, solo tra due utenti, si può configurare il reato di ingiuria, depenalizzato (non è più un reato penale, ma può prevedere una richiesta di risarcimento danni in sede civile).
– Inoltrare email altrui: è un altro tipico caso in cui non è ammessa privacy. Così come per i messaggi Whatsapp e social, le email possono diventare elementi probatori importanti in un procedimento.
– Tempestare di messaggi: nel momento in cui si inviano troppi messaggi a un destinatario che non desidera riceverli, si può profilare il reato di minacce, stalking (con pena fino a 7 anni) o atti persecutori. Lo stesso vale se il destinatario arriva a dover chiudere il proprio profilo social per non ricevere offese, insulti o comunque messaggi sgraditi.
– Rubare la password del partner: nel momento in cui si arriva a sottrarre la password di accesso ai social del proprio partner o amico/a si rischia il reato di accesso abusivo a sistema informatico.
– Creare un falso profilo per “spiare” l’ex: è un caso analogo a quello precedente e accade quando si crea un falso profilo con cui mettersi in contatto con l’ex per poterne controllare l’attività, le amicizie, ecc. In questo casi il reato può essere sostituzione di persona per aver falsificato la propria identità.
I reati quando si inoltrano video, foto, screenshot
Un caso a parte, ma sempre più diffuso ,riguarda l’invio di video e foto altrui tramite WhatsApp o Instagram, che sta aumentando vertiginosamente specie tra i ragazzi. “I casi sono frequentissimi. Ad esempio, se i genitori lasciano a disposizione la propria casa al figlio per una festa, capita di frequente che vengano girati filmati poi postati sui social, nei quali i soggetti sono ripresi in atteggiamenti intimi e poi magari ricattati o bullizzati” spiega l’avvocato Marraffino. “Anche in questo caso si rischiano condanne. Il diritto alla privacy che può esserci nello scambio di messaggi privati viene infatti superato da altri diritti, come quello alla reputazione della persona o all’identità”. “Io ricordo sempre che la pericolosità dei messaggi è che non si fermano al destinatario o al gruppo, ma spesso iniziano a girare all’esterno, tramite screenshot o inoltri” dice ancora l’esperta.
Licenziamento se passi troppo tempo sui social
Anche il tempo trascorso a “navigare” in rete può diventare pericoloso. Di recente la Cassazione si è pronunciata considerando legittimo il licenziamento di una donna di Brescia, scoperta dal datore di lavoro su internet durante l’orario di lavoro. La segretaria part time in 18 mesi aveva registrato fino a 6.000 accessi ai social dal computer di lavoro, dei quali 4.500 solo da Facebook. A nulla è valso il tentativo di appellarsi alla privacy da parte della dipendente, dopo che il titolare dello studio medico presso cui lavorava aveva prodotto come prova la cronologia internet del pc.
Occhio alle chat di classe, anche se di minorenni
La Cassazione che si è pronunciata sul caso di Bari, lo ha fatto dopo che un ragazzo minori di 14 anni aveva inviato messaggi offensivi su una chat della scuola. La difesa sosteneva non vi fosse rilievo penale, limitandosi a un eventuale caso di ingiuria, ma i giudici non hanno accolto la tesi. Pur ritenendo il giovane non imputabile per la sua età, ha riconosciuto il reato di diffamazione.“Se il minore ha più di 14 anni può rispondere della sua condotta davanti al Tribunale per i minorenni che spesso decide per la messa alla prova, soprattutto per responsabilizzare e rieducare il ragazzo. Se invece ha meno di 14 anni non si procede penalmente, ma il ragazzo potrebbe essere segnalato ai servizi sociali e resta comunque la responsabilità civile dei genitori: i danni devono essere sempre risarciti da padre e madre” spiega Marraffino.