I test Invalsi sono sempre una spina del fianco per la scuola italiana: anno dopo anno, certificano le mancanze dei nostri studenti, evidenziando il divario territoriale tra Nord e Sud che attraversa il nostro Paese e le difficoltà della scuola nell’adeguarsi alle esigenze dei ragazzi che la frequentano. I dati del 2019, gli ultimi disponibili prima di quelli appena pubblicati, erano già sconfortanti, soprattutto al Sud, ma quest’anno la situazione è ancora più grave, a causa della chiusura prolungata delle scuole e dell’insufficienza della didattica a distanza, esacerbando una situazione di per sé già complicata. Gli Invalsi 2021, infatti, hanno rilevato che due quattordicenni su cinque (con punte del 50-60% al Sud) dopo l’estate entreranno alle superiori con competenze da quinta elementare.
Ancora peggio va ai ragazzi più grandi: quasi un maturando su due ha concluso il suo percorso scolastico con un livello di competenze da terza media, al massimo da prima superiore. Le due regioni che hanno registrato i risultati peggiori sono anche quelle che hanno tenuto chiuse le loro scuole per più tempo, e cioè Puglia e Campania. Quasi uno studente su dieci (il 9,5%) termina la scuola con un livello di conoscenze in italiano, matematica e inglese sotto la soglia della sopravvivenza, ovvero non sufficiente secondo le indicazioni nazionali per il curriculo, che stabiliscono i programmi e gli obiettivi scolastici. I risultati migliori, invece, si sono registrati alle elementari, dove i nostri studenti reggono il passo dei loro coetanei negli altri Paesi e in alcuni casi li superano. Cosa è andato storto alle medie e alle superiori? Come la didattica a distanza ha influito negativamente sulla situazione? Ne abbiamo parlato con Barbara Romano, ricercatrice presso la Fondazione Agnelli specializzata in statistiche e valutazioni delle politiche educative.
Chiariamo un equivoco, visto che in passato i test Invalsi sono stati criticati da alcuni gruppi di insegnanti in Italia perché ritenuti troppo nozionistici. Cosa sono e come sono strutturati?
È importante chiarire innanzitutto che i dati Invalsi non sono dei test che misurano delle cose estranee rispetto alle indicazioni nazionali per il curriculo, ovvero i programmi di apprendimento, sono assolutamente in linea con gli insegnamenti che dovrebbero essere forniti nelle nostre scuole. L’equivoco è quello di dire che i test siano una manipolazione, che portano gli studenti a perdere la loro personalità, che sviliscono gli studenti e il lavoro degli insegnanti. Ora, i test si svolgono in una sola giornata nell’arco di un anno scolastico, uno studente li affronterà sei-sette volte in tredici anni di carriera scolastica, per cui non è chiaro come una sola prova possa manipolarne o influenzarne il percorso. Spesso si dice che gli insegnanti, per “preparare” gli studenti a sostenere questi test, cambierebbero il loro modo di insegnare. Ma il punto è questo: i test Invalsi non sono affatto nozionistici, perché esattamente come le prove TIMSS e PIRLS, sono fatti per misurare delle competenze, quindi delle capacità che si sono acquisite.
Che tipo di competenze misura quindi un test Invalsi?
In un test come l’Invalsi non si chiederà mai il teorema di Pitagora o la data di un determinato avvenimento, sono tutti esercizi che richiedono un ragionamento. È vero che le risposte sono a crocette, ma la crocetta è sempre frutto di un ragionamento. Confondere la modalità di risposta con il contenuto della domanda è sbagliato: i test misurano esattamente quello che poi lo studente dovrebbe essere in grado di fare nella vita quotidiana, la sua capacità di essere un cittadino che vive in un contesto sociale. Ad esempio, quest’anno nei test per le elementari c’era una domanda molto bella che riguardava i fusi orari, in cui veniva chiesto ai bambini di immaginare di essere in spiaggia e di dover chiamare un proprio parente che vive negli Stati Uniti per salutarlo: avrebbero potuto farlo? Ci sarebbero stati problemi di linea oppure problemi di orario? Era una domanda intelligente perché stimolava un ragionamento che non si impara a memoria da un libro ma che fa parte di quelle competenze che la scuola dovrebbe essere in grado di trasferire. Tutte le domande dei test Invalsi sono strutturate in questo modo: non si chiede la ripetizione mnemonica di qualcosa che si è imparato a scuola, ma piuttosto di risolvere delle situazioni concrete in base a quelle che dovrebbero essere le competenze di un ragazzo di una certa età.
Sembra proprio il contrario, e cioè che i test Invalsi mettano in evidenza quanto sia ancora nozionistica molta della didattica italiana. I risultati dei test Invalsi 2021 hanno certificato ancora una volta gravissime lacune, che si sono aggravate con la didattica a distanza. Quali sono, secondo il suo parere, i dati più preoccupanti?
Esattamente, è proprio questo il punto. C’è uno scollamento tra una scuola che lavora principalmente per nozioni e per didattica tradizionale e quello che l’Invalsi svela, ovvero che non siamo poi in grado di gestire la complessità del mondo che ci circonda. Il dato in assoluto più preoccupante è quello che riguarda gli studenti che erano prossimi alla maturità, che ora si sono maturati, i quali, dopo tredici anni di scuola, in media, nel 44% dei casi, non hanno raggiunto il traguardo minimo di competenze in italiano secondo le indicazioni nazionali per il curricolo. E il 51% in matematica. Questo significa che la metà degli studenti che sono arrivati alla maturità non ha una competenza matematica minima. È un dato drammatico. Come negli anni scorsi ci sono dei grandi divari territoriali e ci sono regioni dove arriviamo al 70%, come Puglia, Sicilia, Calabria, Campania, alcune arrivano al 76-77%. In un articolo uscito recentemente su Lavoce.info, con il collega Andrea Gavosto, abbiamo provato a tradurre le differenze di punteggio in mesi di scuola, usando dei criteri che esistono a livello internazionale e altri che abbiamo discusso con Invalsi. In questo ritardo medio italiano, le differenze tra Nord e Sud sono di 49 punti. Detto così lascia il tempo che trova, ma tradotto in mesi di scuola si tratta di più di tre anni, visto che le competenze di un anno di scuola sono all’incirca 16 punti.
Le scuole elementari, invece, hanno retto.
Sì, le scuole elementari reggono e se dobbiamo fare un raffronto utilizzando i dati internazionali TIMSS e PIRLS [i test che vengono svolti in quarta elementare e terza media, il TIMSS misura le competenze matematiche e scientifiche mentre il PIRLS quelle linguistiche, ndr] vediamo che in quarta elementare gli studenti italiani vanno benissimo in matematica, sono assolutamente al passo con gli studenti di tutto al mondo, siamo anzi molto di sopra della media dei Paesi che partecipano. A quello stadio siamo un Paese avanzato. Arrivati alla terza media abbiamo poi un calo drastico che ci porta molto al di sotto della media di tutti i Paesi. Qualcosa succede tra la quarta elementare e la terza media. Andavamo già male negli anni precedenti, ma quest’anno sono state rilevate delle ulteriori perdite – 4 punti in italiano e 7 in matematica – e uno può pensare che 4 punti su 200 non sia tanto. Ma 200 punti è una standardizzazione, abbiamo detto che un anno di scuola equivale a 16 punti, per cui 4 punti significano un quarto di anno scolastico in italiano, circa un mese e mezzo/due, e oltre metà dell’anno nel caso della matematica [di apprendimento perso, ndr].
I ragazzi delle medie e delle superiori hanno difficoltà in italiano, matematica e inglese (sebbene per quest’ultima disciplina i risultati siano piuttosto in linea con gli anni precedenti, ma resta il fatto che il 60% degli studenti ha difficoltà nell’ascolto). Cosa non funziona con la didattica in Italia e cosa è stato aggravato dalla distanza in Italia?
Con Fondazione Agnelli stiamo lavorando da due anni a un rapporto sulla scuola media che uscirà tra settembre e ottobre. Quel periodo è uno snodo cruciale [della carriera di uno studente, ndr], perché si tratta di ragazzi che si trovano in una fase della vita molto particolare, e decisamente diversa da com’era in passato perché oggi l’adolescenza pone delle sfide molto più complesse, e che si trovano degli insegnanti impreparati dal punto di vista metodologico e psicologico a reggere il loro passo e a individuare i loro bisogni. È una scuola nozionistica quando il cervello di un adolescente avrebbe bisogno di sfide e di imparare un altro genere di cose. I ragazzi che oggi frequentano la scuola media saranno sul mercato del lavoro tra dieci e o quindici anni, a seconda che decidano di completare il loro ciclo di studi andando all’università o meno, e le nozioni che valgono oggi saranno ampiamente scadute per quel momento. La scuola di tutti i gradi, e in particolare modo le secondarie di primo e secondo grado, dovrebbero essere in grado di insegnare a imparare, ovvero mettere l’individuo nelle condizioni di imparare a imparare da solo, sviluppare lo spirito critico e tutte quelle competenze più personali, più umane, che gli consentiranno di sopravvivere ed essere sufficientemente elastico e adattivo per potersi adeguare a una realtà che ha uno sviluppo molto rapido. Gli insegnanti che oggi si trovano nella scuola media e nella scuola superiore non hanno questo tipo di preparazione, quindi c’è un problema a monte. Hanno una laurea disciplinare che non significa avere competenze pedagogiche e sulle tecnologie di insegnamento più moderne. Viviamo in un sistema dove non c’è solo un problema di reclutamento ma anche di aggiornamento, perché una volta reclutato non sei obbligato a formarti: spesso si entra con quelle competenze e si lavora con quelle per tutta la vita.
Quali sono stati gli effetti della didattica a distanza negli altri Paesi europei e quali le principali differenze con l’Italia?
Dall’inizio del primo lockdown fino a oggi, con Andrea Gavosto abbiamo compilato una rassegna – utilizzando blog, articoli, tutto quello che c’era – per capire cosa stesse succedendo negli altri Paesi, ma anche fuori dall’Italia non era possibile capire cosa stesse succedendo in corsa. C’è uno studio dell’università di Oxford su dati olandesi è per il momento la migliore ricostruzione della learning loss [perdita di apprendimento, ndr] seguita a un lockdown relativamente breve, dove si rilevava una perdita di apprendimento di due mesi a fronte di una chiusura di 8 settimane [in Italia sono state 14, ndr]: il tempo di chiusura equivaleva esattamente alla chiusura. L’Olanda è un Paese che è più avanzato di noi in quanto a metodi e diffusione delle tecnologie didattiche, alfabetizzazione informatica e preparazione dei docenti, e ha comunque registrato delle perdite sensibili. Non è quindi stupefacente che da noi si sia registrato questo disastro. Uno studio della Brown University per gli Stati Uniti risalente al maggio 2020, fatto non su dati reali derivanti dalla pandemia perché non era ancora possibile osservarli, ma utilizzando dati precedenti sulla perdita di apprendimento – come quella estiva o quella che si era registrata dopo catastrofi naturali quali l’uragano Katrina – mostra come il danno maggiore tocca agli studenti più giovani, che si ritrovano basi più fragili su cui costruire la conoscenza futura.