Stiamo diventando un Paese xenofobo? A guardare i dati dell’Ufficio nazionale antidiscriminazioni sembrerebbe proprio di sì: l’82,9% delle denunce arrivate negli ultimi 12 mesi ha a che fare proprio con etnia e colore della pelle; un anno fa il dato non raggiungeva il 70%. E poi ci sono gli ultimi fatti di cronaca che hanno per protagonisti loro, ragazzi e bambini adottati o nati nel nostro Paese e accomunati tutti da quella che sembra una “colpa imperdonabile”: la pelle scura.
Così si moltiplicano le famiglie italiane che devono fare i conti con episodi di razzismo. E che finiscono sui giornali: come Paolo Pozzi e Angela Bedoni, genitori adottivi di Bakary, un ventunenne senegalese arrivato 5 anni fa in Italia. Nell’androne della loro casa di Melegnano, in provincia di Milano, sono state scritte minacce di morte e frasi ingiuriose. A Roma, intanto, un dodicenne egiziano è stato aggredito per ben tre volte in un mese e ora vuole fuggire da un Paese che gli “fa paura”. E in una scuola di Foligno, un bimbo di colore è stato messo in un angolo dal maestro che ha sottolineato le sue origini. Il docente si è scusato spiegando che si trattava di un esperimento, ma l’indignazione è rimasta.
«Prima la gente non osava urlare contro gli stranieri, oggi lo fa e ne è orgogliosa, anche se sono adolescenti adottati o nati in Italia proprio come noi» racconta Gabriella Nobile, genitore di due bimbi africani e presidente dell’associazione Mamme per la pelle, che ha fondato un anno fa. «L’ho fatto perché dopo la lettera che ho mandato al ministro Salvini per raccontargli la mia paura davanti al clima di odio, sono stata sommersa dal grido di aiuto di centinaia di donne che vivono la stessa situazione. Bisogna invertire la tendenza: scendere in piazza e raccontare gli esempi positivi dell’integrazione. Perché non possiamo permettere che, nel 2019, un ragazzino si vergogni per il colore della pelle». Ma loro, i ragazzini di colore, come vivono tutto questo? Come reagiscono a discriminazioni e piccole e grandi violenze? Ce lo raccontamo in queste testimonianze.
Elia, 13 anni, vive a Terni con i genitori adottivi e la sorella maggiore
Sembra un ragazzino come tanti, sempre sorridente. Ma forse si è solo costruito una corazza per proteggersi. Elia Perugini, 13 anni, è nato in Congo e vive a Terni. Purtroppo, razzismo e intolleranza li sta provando sulla sua pelle. «Il momento peggiore? Qualche tempo fa un compagno di classe mi ha chiamato “brutta scimmia” e mi ha tirato un pugno» racconta a voce bassa. «Gli insegnanti sono intervenuti ma l’hanno liquidata come una ragazzata. E non è stata la prima volta: ho collezionato diversi insulti, “nero di m…” è un classico ormai e le maestre hanno sempre minimizzato, anzi hanno detto a mia mamma che ero io ad amplificare la situazione. Così ho dovuto cambiare scuola: sono un buono, cerco di essere indifferente e perdono, ripetendomi che sono loro in torto, non io. Ma quelle parole erano diventate un incubo ed entrare in classe, al mattino, mi sembrava più difficile che scalare una montagna a mani nude. Ora frequento un nuovo istituto: è multietnico, le differenze e i colori delle pelle non contano. Ma ho paura che alle superiori l’incubo ricominci». Anche perché le discriminazioni non vanno in scena soltanto sui banchi. «Il mese scorso sono andato al Pronto Soccorso per una sospetta appendicite e il medico, prima di visitarmi, mi ha squadrato e ha chiesto a mia mamma se parlassi italiano. Peccato che io sia italiano…». Elia sbuffa, finge indifferenza, ma anche queste sono parole pesanti come macigni. Tanto che lui, in un compito a scuola, ha scritto una lettera al poeta Ugo Foscolo, che inizia così: «Tu sei stato esiliato, io discriminato…».
Mihret, 14 anni adottata nel 2008, vive in provincia di Lecco
«L’aria sta cambiando: si respira una specie di virus, un indottrinamento per cui, ormai, il nero è un nemico». Se a pronunciare questa frase è una ragazza di 14 anni, non puoi rimanere indifferente. Mihret Mandelli vive in provincia di Lecco da quando, nel 2008, la sua mamma e il suo papà hanno adottato lei e i fratelli in Etiopia. «Prima la battuta cattiva era una rarità, adesso persino le mie amiche più care mi dicono “ormai tu sei una di noi, ma gli altri…”, come se ci fosse un noi e un loro, quelli di colore. Non sono fatti eclatanti, per carità, ma piccoli gesti quotidiani che feriscono. Come quando sono in giro a fare shopping con mia madre: mi capita di entrare in un negozio e subito ho tutte le commesse addosso, a monitorare ogni passo, sicure che io sia lì per rubare; poi se arriva mamma, come per magia, sfoderano finti sorrisi e diventano super servizievoli. Un atteggiamento odioso, che mi toglie la voglia di uscire. Fanno male anche i commenti sbalorditi quando dico che frequento il liceo classico, come se le miei origini pregiudicassero la voglia di studiare, o le voci maligne dei coetanei perché circola la leggenda che le adolescenti di colore siano più facili e provocanti. Ma il peggio l’ho toccato a danza, dove mi sono sentita dire che le ballerine nere non esistono e che ogni mio sforzo sarebbe stato inutile. In quel momento sono arrivata a odiare me stessa, la mia identità e quei capelli che non diventeranno mai lisci». Per fortuna, il rancore non riesce a inquinare i sogni di Mihret. «Da grande vorrei fare il giudice per i minori e spero che discriminazione e pregiudizi non mi fermino mai».
La storia di una madre. Daniela, 52 anni, di Arezzo
Quello che ti colpisce di Daniela è la voce che sprigiona forza. Anche se in questo momento parlare è difficile, tanto che il figlio, 12 anni, non ci riesce. «Tommaso arriva dal Benin. Il colore della sua pelle, quella tonalità cioccolato che prima provocava sorrisi di tenerezza, ora per gli altri è diventato un problema. Tutto è cominciato lo scorso luglio: al campo estivo gli amichetti di sempre lo hanno preso a male parole. Per fortuna, gli animatori sono intervenuti e l’allarme è rientrato. Pensavamo a un episodio isolato, invece Tommy è stato aggredito un mese fa, su un autobus quasi deserto. Tre uomini lo hanno offeso e preso a calci e pugni e l’autista è rimasto indifferente». Daniela racconta la corsa all’ospedale e la denuncia contro ignoti, che si è risolta in un nulla di fatto. «Tommaso si è chiuso nel silenzio. E noi siamo angosciati: lo abbiamo accolto per offrirgli una vita migliore ma adesso ci chiediamo che futuro potremo dargli: avrà paura a uscire di sera perché è di pelle scura? Non avrà il lavoro che merita per la stessa ragione? Però non molliamo, restiamo qui, in quello che oggi è anche il Paese di nostro figlio».