Toloi, Emerson Palmieri, Pessina, Bernardeschi e Belotti: sono stati gli unici cinque Azzurri a inginocchiarsi prima del fischio di inizio di Italia-Galles la scorsa domenica in segno di solidarietà al movimento Black Lives Matter. Il gesto nasce dal giocatore di football Colin Kaepernick che per primo, nel 2016, ha iniziato a inginocchiarsi durante l’inno nazionale per protestare contro le violenze della polizia nei confronti degli afroamericani e denunciare il razzismo sistemico. Da allora, moltissimi campioni nel mondo dello sport l’hanno imitato, e #takingtheknee (letteralmente “inginocchiarsi”) è diventato un simbolo di impegno e partecipazione nell’antirazzismo.
Tornando alla Nazionale italiana, in molti, tra giornalisti e commentatori social, ci hanno tenuto a specificare che il gesto della squadra scozzese ha colto di sorpresa gli italiani, visto che non era stato previamente concordato, il che ha comportato la loro reazione “disordinata”. Sarà anche stato così per quell’occasione, ma l’Italia è tra quelle squadre, insieme a Russia e Ungheria tra le altre, che non si è mai inginocchiata sin dall’inizio del torneo. Ma l’antirazzismo non era un valore fondante del calcio?
Un gesto che fa polemica…
Com’era immaginabile nell’epoca di internet, il mancato inginocchiarsi degli Azzurri ha scatenato reazioni virulente, al punto che il giorno dopo la partita è diventato trending topic su Twitter Italia l’hashtag #iononmiinginocchio, sotto al quale era possibile leggere i peggiori commenti che i social possano esprimere. Come riporta la Bbc, il gesto sta diventando un serio problema per gli Europei, al punto che la Uefa ha dovuto intimare ai tifosi, in un comunicato ufficiale, di rispettare la scelta dei giocatori che si inginocchiavano, dopo che in alcune partite erano stati sommersi dai fischi.
Le critiche al gesto sono diverse: da chi sostiene si tratti di puro attivismo social, che non smuove di un millimetro la situazione nel mondo reale (una critica anche legittima, sebbene che sportivi milionari seguiti da moltissimi giovani si espongano su temi sociali male non fa), a chi invece sostiene sia “divisivo” perché di natura politica. Come ha detto Claudio Marchisio, però, di divisivo dovrebbe esserci poco: «C’è libertà di scelta, ma questa è una protesta molto importante e avrei preferito che si inginocchiassero tutti», ha commentato infatti dopo la partita.
… ma che in realtà vuole ribadire i valori dello sport
Al di là dei politici di diversi schieramenti che non hanno esitato a saltare sul carro della polemica, quello che fa riflettere è l’atteggiamento dei vertici del calcio, italiano ma non solo. L’imbarazzo con cui la Uefa sta gestendo la situazione è emblematico: in teoria, nella promozione dell’evento e nelle dichiarazioni ufficiali, l’impegno è sempre quello a combattere razzismo e discriminazioni di ogni tipo, ma quando si tratta di combattere le frange più estremiste delle tifoserie calcistiche e promuovere un reale, radicale, cambiamento della cultura di questo sport, l’impegno si ferma agli slogan.
Gli episodi sono tanti, ma basti citare gli ultrà neonazisti dell’Ungheria che hanno tranquillamente scorazzato per le strade di Budapest prima di avvicinarsi allo stadio per seguire Ungheria-Francia lo scorso 19 giugno oppure il portiere della Germania Neuer che è stato richiamato dalla Uefa per aver indossato la fascia arcobaleno in omaggio al mese del Pride, la stessa scelta dalla Federcalcio, salvo poi dire che «la causa era giusta» quindi niente multa, oppure ancora la decisione, sempre della Uefa, di bloccare l’iniziativa dell’Allianz Arena di Monaco di Baviera, dove si terrà Germania-Ungheria, di illuminarsi con la bandiera del Pride. Eppure il supporto alla comunità Lgbt+ e la lotta all’omofobia fanno parte del programma della Uefa, esattamente come l’antirazzismo.
Se dai calciatori e dagli sportivi in generale non ci si può sempre aspettare che sappiano come usare la loro immensa popolarità e le loro piattaforme per promuovere determinati temi (non è raro che chi l’ha fatto sia poi finito nei guai, come lo stesso Kaepernick o il calciatore tedesco Mesut Özil, che aveva criticato la persecuzione degli Uiguri in Cina), è legittimo farlo dalle istituzioni che intorno agli sportivi si muovono e ci guadagnano: che abbiano almeno il coraggio di tener fede ai loro slogan.