La cittadinanza è un po’ come l’aria: te la trovi in dotazione quando nasci e ne benefici senza pensarci troppo. Ma quando non ce l’hai ti accorgi della sua importanza. La sua mancanza è il tassello vuoto che rende precaria e incompleta la tua identità. Se sei un ragazzino nato in Italia da genitori stranieri, la “non cittadinanza” diventa lo sbarramento che la burocrazia ti oppone quando chiedi di partecipare a una gita, a un torneo, uno stage. Dato che nel nostro Paese vige lo ius sanguinis, sei italiano quando hai almeno un genitore italiano. Altrimenti, occorre aspettare i 18 anni per avviare l’iter di richiesta della cittadinanza. Negli ultimi anni ci sono stati vari tentativi di riscrivere le regole in materia, tutti naufragati.
La proposta di legge sullo ius scholae
Adesso è in Parlamento una nuova proposta di legge: lo ius scholae. «Permetterebbe ai minori stranieri nati in Italia o arrivati qui prima dei 12 anni di età di diventare cittadini se sono residenti legalmente e stabilmente nel nostro Paese e hanno frequentato le scuole italiane per almeno 5 anni» spiega Irene Pavlidi, consulente legale dello studio Incipit di Milano, socia di Asgi (Associazione studi giuridici immigrazione) e collaboratrice della rivista Nuoveradici.world.
Come le precedenti, anche questa proposta si è arenata, presa di mira da oltre 700 emendamenti. Ma, mentre la politica mette freni degni dell’Azzeccagarbugli manzoniano, è partita la campagna Noi siamo pronti, e voi? lanciata dal Coordinamento nazionale Nuove generazioni italiane e italiani senza cittadinanza. E secondo un sondaggio di ScuolaZoo, 8 ragazzi su 10 ritengono giusto che i loro amici e compagni di classe di origine straniera diventino italiani. «La proposta sullo ius scholae ha dei limiti, certo, ma la necessità di riorganizzare la materia c’è» aggiunge Irene Pavlidi. «È come se la politica avesse gli occhi ancora rivolti all’epoca in cui l’Italia era un Paese da cui si emigrava. La legge in vigore è di 30 anni fa, la si era voluta anche per permettere ai discendenti degli italiani trasferitisi all’estero da generazioni di ottenere la cittadinanza e di mantenere un legame con il nostro Paese, se nessuno degli avi aveva espresso la volontà di rinunciarvi».
L’Italia è un “Paese di immigrazione”
Nel frattempo le cose sono cambiate: siamo diventati un “Paese di immigrazione”. E si è cercato di introdurre norme ispirate allo ius soli, il principio in base al quale la cittadinanza si acquisisce quando si nasce sul territorio di uno Stato. «Non si tratta di regalare la cittadinanza al primo che passa, come sostiene un certo populismo che spaventa le persone. Non va confusa l’immigrazione irregolare con la cittadinanza data ai ragazzini che vivono in Italia da anni» spiega Milena Santerini, docente di Pedagogia all’Università Cattolica di Milano e coordinatrice del Gruppo Intercultura della Siped, la Società italiana di pedagogia, il quale dà il suo a sostegno della riforma della cittadinanza. Calcolare quanti potrebbero beneficiarne non è semplice, ma si possono fare delle stime.
Secondo il ministero dell’Istruzione, gli alunni con cittadinanza straniera dalla scuola dell’infanzia alla secondaria sono circa 880.000, pari al 10% della popolazione scolastica, e circa 2 su 3 sono nati in Italia. Con lo ius scholae potenzialmente circa 300.000 ragazzini avrebbero diritto a diventare italiani.
Nell’acquisizione della cittadinanza la scuola ha un ruolo cruciale. «Si tratta di “fare gli italiani” attraverso la formazione scolastica» osserva Roberta Ricucci, docente di Sociologia della mobilità internazionale all’Università di Torino e autrice di Protagonisti di un Paese plurale (Seb 27 edizioni). «Ci sono insegnanti che hanno sviluppato antenne sensibili, guardando alle difficoltà che un ragazzino straniero può avere rispetto ai coetanei italiani, ma non ancora tutte le scuole sono attrezzate in proposito. Attenzione: non si tratta di delegare solo al corpo insegnante il compito di accompagnare l’inclusione dei figli dell’immigrazione; anche chi svolge compiti educativi, dagli animatori del tempo libero agli allenatori sportivi, dovrebbe essere preparato su questo tema». Poi vanno aggiornate le lenti con cui si guarda agli allievi non italiani. «Rispetto ai primi anni 2000 la realtà è diversa. Il 60% dei loro genitori possiede un diploma o una laurea, ha cioè competenze anche se non sa esprimerle bene in italiano» aggiunge Ricucci.
C’è chi si dice pronto a concedere la cittadinanza entro certi limiti, per esempio solo ai figli di stranieri con medie scolastiche eccelse, dall’8 in su. «La cittadinanza, però, non è un premio ai più bravi» osserva Santerini. «Questo approccio penalizzerebbe proprio i ragazzini più fragili. Come possono avere un alto rendimento le bambine afghane che arrivano da noi dopo che nel loro Paese non hanno frequentato la scuola perché i talebani glielo hanno impedito? ».
I pregiudizi che ancora incombono
Di pregiudizi ce ne sono ancora molti, specie tra gli adulti. «Serpeggia una domanda: i figli degli stranieri saranno come i nostri?» dice Roberta Ricucci. «Indossano gli stessi vestiti, ascoltano la stessa musica, parlano lo stesso slang. Ma il timore sotteso è che siano portatori di valori poco integrabili nella nostra società. Di fronte agli stranieri spesso si applica un ranking, una classifica: va bene se sono europei. Va meno bene se si chiede di ammettere chi proviene da Paesi a maggioranza musulmana o chi ha tratti somatici o fenotipici diversi dai nostri». Questo in alcune città, per esempio a Milano, si è tradotto in una sorta di segregazione scolastica: «Il fenomeno si chiama white flag» spiega Santerini. «Ci sono scuole a netta predominanza di bambini di famiglie italiane di reddito medio alto e altre con prevalenza di bambini stranieri o appartenenti a famiglie disagiate».
Cos’è il “vantaggio della cittadinanza”
Tanti studi, supportati dall’esperienza di altri Stati, invitano a fare l’opposto e a integrare i giovani stranieri. «È il cosiddetto “vantaggio della cittadinanza”. Se viene concessa, le famiglie sono disposte a fare un investimento sui figli: li iscrivono alla scuola dell’infanzia e i ragazzini rischiano meno l’abbandono scolastico, studiano meglio e più a lungo» dice Santerini. «Ne beneficia la società intera perché si ritrova giovani preparati. Al contrario, se si oppongono ostacoli, tante famiglie straniere emigrano in Stati dove trovano condizioni migliori: già succede, soprattutto al Nord. Siamo un Paese anagraficamente vecchio e l’immigrazione può darci quel dinamismo sociale ed economico di cui abbiamo bisogno».
Come si acquisisce la cittadinanza italiana
La legge di riferimento per l’acquisizione della cittadinanza italiana è la 91 del 1992. Qui spieghiamo in sintesi cosa prevede con l’aiuto di Irene Pavlidi,
esperta di diritto degli stranieri.
La cittadinanza italiana è trasmessa secondo il principio dello ius sanguinis, cioè da genitore a figlio. Lo ius soli, in base al quale la cittadinanza si acquisisce per il fatto di essere nati sul territorio dello Stato, è previsto raramente, per esempio nel caso di figlio di ignoti o di apolidi. Sono quindi italiani i figli di almeno un genitore italiano, i figli di ignoti o apolidi nati nel territorio della Repubblica, i discendenti di italiani che riescano a dimostrare la catena parentale fino al capostipite cittadino italiano.
Acquista la cittadinanza anche il minore straniero adottato da un cittadino italiano e il figlio minore di un cittadino straniero che ha acquistato la cittadinanza italiana. Il coniuge straniero di un cittadino italiano acquista la cittadinanza quando risiede qui da almeno 2 anni dalla data di celebrazione del matrimonio o dopo 3 anni se risiede all’estero. I termini sono dimezzati se dall’unione è nata prole.
Uno straniero può ottenere la cittadinanza per naturalizzazione: può richiederla dopo 10 anni di residenza legale in Italia, ridotti a 5 anni per coloro cui è stato riconosciuto lo status di apolide o di rifugiato e a 4 anni per i cittadini di Paesi dell’Unione europea. I figli di cittadini stranieri che nascono in Italia e vi risiedono ininterrottamente fino al compimento della maggiore età possono, entro un anno dal compimento dei 18 anni, dichiarare di voler acquisire la cittadinanza.