Le cose sarebbero potute andare diversamente. Il bambino che sono stato ha iniziato presto a intuire quanto i suoi desideri fossero sbagliati e imbarazzanti per quelli che gli stavano attorno: le Barbie erano bandite, lo smalto sulle unghie vergognoso, all’intervallo gli spettava il calcio e non il ballo o le mille altre cose meravigliose che facevano le sue compagne, i trucchi della mamma non si potevano provare, a Carnevale era folle pensare di vestirsi da Jessica Rabbit, si nascondeva quando immaginava di essere Wonder Woman. Era maschio, ero maschio, maschio, maschio! Stavo da quella e solo da quella parte, il mio corpo tracciava per me un destino e a me non restava che adeguarmi. Al cospetto dell’ordine già esistente, ciò che sentivo semplicemente non contava nulla e, anzi, in caso di infrazione, andava sanzionato con il diniego, lo scherno e, qualche volta, le botte.

I bambini non conformi imparano presto a sintonizzarsi con questo enorme condizionamento che si impone con l’infanzia e prosegue per tutta la vita, con questa infinita sfilza di divieti, pre-interpretazioni, corsie ermeneutiche: maschi e femmine, due mondi separati, senza possibilità di transito e sconfinamento. I bambini non conformi imparano a non chiedere, o a nascondere, far finta di niente, apprendono la salvifica arte dell’autocensura.

Bambino in cucina

Ma le cose potrebbero andare diversamente, sarebbero potute andare diversamente per me e per molti altri con una storia simile alla mia: la nostra infanzia avrebbe potuto essere il tempo della piena condivisione, della libera esplorazione, dell’ascolto e dei giochi legittimi. Della giustizia, della responsabilità da parte degli adulti. Non è stato così, ancora oggi per molti non è così. Molte delle resistenze che scettici e critici delle questioni legate all’identità di genere avanzano arrivano dal culto della tradizione, dall’incapacità a immaginare che le cose prendano ad andare in un modo diverso rispetto a come sono sempre andate.

Quando i critici dei temi del queer e dell’identità di genere dicono, ad esempio, di voler difendere i bambini, ricorrono a dei bambini tutti teorici, dei costrutti ideali a loro uso e consumo: bambini perfettamente collimanti con le strutture più frequenti nel mondo blindato in cui siamo immersi. Ma i bambini non allineati – omoaffettivi, transgender, genderfluid – esistono, sono sempre esistiti. Ne consegue che l’identità di genere, e tutto il lavoro impellente di educazione a questi temi che la scuola non fa e dovrebbe fare, si configurano come fondamentali per i diritti dell’infanzia. Di tutta l’infanzia, dell’infanzia di tutti e tutte, dato che le recinzioni identitarie su cosa siano i maschi e cosa siano le femmine affliggono, come sappiamo, la crescita e l’autodeterminazione anche di chi non fa parte della comunità Lgbt.

Bambino che si trucca

Dicevo del bambino che sono stato. Ora che il tempo è passato io possiedo i mezzi emotivi e linguistici per dire le cose come stanno: non mi sento né maschio né femmina, sento di stare nel mezzo o in una zona altra rispetto a questi due grandi, asfissianti poli dell’immaginario condiviso. Mi sento una commistione, un ibrido, una crasi, “due spiriti” dicono i nativi americani: sono quella che può essere definita una persona “non binaria”, termine ombrello che raccoglie tutte quelle identità che esulano dal binarismo di genere: bi-gender, agender, genderfree e genderfluid. Questo è ciò che sento e ho sempre sentito, e anche per questo scrivo ora pensando a voi adulti, noi adulti, a cominciare da mamme e papà, nonni, nonne, educatori, maestre, a tutti quelli che ancora faticano con questi temi: dobbiamo iniziare ad ascoltare le storie da sempre invisibili, silenziate, messe ai margini, è un lavoro, anche su noi stessi, che il tempo e le nuove generazioni ci invitano a fare.

Perché le differenze – che non recano danno a terzi – non possono abitare legittimamente il mondo? Perché il solo offrirsi con forme di vita meno diffuse dovrebbe attivare diffidenza e inquietudine? Per qualcuno potrà non essere proprio automatico: la nostra mente è fatta per distinguere e mantenere ferme le distinzioni raggiunte, l’educazione ha innalzato in noi strutture che si fanno sentire. Ma questi automatismi che incidono così profondamente già sulla vita dei bambini e degli adolescenti, sulla loro dignità e sicurezza, devono essere decostruiti e attraversati con criteri nuovi e più razionali. Sì, questa è anche una questione di razionalità, oltre che di empatia: tutte le nuove possibilità di ricombinazione e fluttuazione tra i generi non devono farvi paura, non dovrebbero farlo, e per capirlo il modo migliore è sempre quello di sbilanciarsi verso il reale, immergendosi nelle storie concrete degli altri, per penetrare nella normalità di esistenze lontane da noi eppure così somiglianti, per emozioni e bisogni, e capire che è falso che a un altro ordine corrisponda un disordine.

Oggi anche i social possono aiutare ad accogliere la sfida della pluralità: sono molti i giovani attivisti, autori e influencer che contribuiscono a moltiplicare i centri del discorso pubblico, da Fumettibrutti a Pietro Turano, da Francesco Cicconetti a Muriel e Ethan Caspani, passando per Jennifer Guerra, Vera Gheno, Chiara Sfregola, Irene Facheris, Nicoz Balboa, Simone Alliva, Carlotta Vagnoli, e la lista potrebbe continuare a lungo. Sono anche questi i punti luminosi da provare a seguire per non perdersi nelle tentazioni oscurantiste e abbracciare, magari già a partire dalle relazioni con le bambine e i bambini della nostra vita, la novità di ognuno.

L’AUTORE DI QUESTO ARTICOLO: JONATHAN BAZZI

Jonathan Bazzi scrittore
Con Febbre (Fandango), un libro autobiografico e coraggioso, l’anno scorso Jonathan Bazzi si è fatto conoscere e amare dal pubblico ed è entrato subito nella cinquina del Premio Strega. Ora si attende il suo nuovo romanzo. Uscirà l’anno prossimo per Mondadori.