«Per i nostri figli e nipoti la Terra non sarà una casa nel modo in cui lo è stata per noi: non sarà altrettanto ospitale, bella e piacevole». Questa frase, contenuta in Possiamo salvare il mondo prima di cena (Guanda), l’ultimo saggio dello scrittore cult Jonathan Safran Foer, spiega ciò a cui stiamo assistendo negli ultimi mesi: l’entusiasmo per Greta Thunberg e il movimento dei Fridays for Future, la corsa a ridurre la plastica nei mari, l’interesse per i documentari che ci mostrano le conseguenze delle nostre azioni sul Pianeta.
Manco a dirlo, il libro è schizzato in testa alle classifiche di vendita proprio alla vigilia del Global Climate Strike, la settimana di mobilitazioni in tutto il mondo per il clima (dal 20 al 27 settembre). E al Festivaletteratura di Mantova, dove lo abbiamo incontrato, l’autore newyorkese è stato accolto come una rockstar. «Sono felice di vedere così tante persone coinvolte. Forse la gente sta capendo che è arrivato il momento di agire individualmente. Sono speranzoso» dice. «La conversazione su questi temi, anche negli Usa, è cambiata. Non c’è più chi nega la verità sui mutamenti climatici. Ci stiamo finalmente muovendo tutti nella stessa direzione».
Dobbiamo mangiare meno carne
La direzione per Foer è chiara: dobbiamo mangiare meno carne. Perché la carne, principalmente quella rossa, è la prima causa del disboscamento: si tirano giù alberi, in Amazzonia come negli Usa, per fare spazio agli allevamenti intensivi e alle coltivazioni di soia che servono ad alimentare gli animali. Una consapevolezza nata anni fa quando visitò questi luoghi e vide in che modo vengono trattati manzi, vitelli e polli che poi troviamo sulle nostre tavole. Nel 2010 nacque così il libro Se niente importa (sempre Guanda) ed era un primo passo. Qui c’è il salto verso una considerazione più generale, che riguarda il nostro stile di vita, il modo in cui affrontiamo i problemi e come ne discutiamo.
Ciascuno di noi può fare la sua parte, a partire da 4 piccoli gesti
«Avere un’alimentazione a base vegetale, evitare di viaggiare in aereo, vivere senza macchina e fare meno figli» dice Foer, spiegando che però non si può essere rigidi. Pretendere che le popolazioni in difficoltà prendano questi provvedimenti è ingiusto. Ma «dire che ci interessa una cosa non è come fare quella cosa. Dobbiamo iniziare da qualche parte». Anche il modo in cui parliamo di ambiente e crisi climatica è importante. «Per molti è un argomento noioso, triste, associato alle rinunce. Io non dico che bisogna smettere di usare l’auto o l’aereo. Ma di limitarci». Usare un linguaggio adeguato può servire.
Per esempio, il quotidiano inglese The Guardian non parla più di “climate change” ma di “climate crisis”, crisi climatica. «Non è abbastanza. È il modo di vivere delle società ricche la principale causa della distruzione del Pianeta e quindi sono queste società a dover fare di più». Il problema per Foer è sostanzialmente etico, come nel saggio precedente. Imparare ad avere di meno. Ridurre il cibo, che nei Paesi sviluppati abbiamo in abbondanza, sembra la cosa più immediata e semplice. «Eppure non per tutti è così facile, perché il cibo è legato alla nostra immaginazione, alle nostre esperienze. La scelta di una macchina, un’ibrida invece di un Suv, è più facile da prendere. Però pensiamo alle cose positive: quanto fare le cose giuste sia gratificante e ci faccia stare bene. Il piacere di un piatto di carne finisce nel momento in cui abbiamo deglutito l’ultimo boccone, la felicità che deriva dall’inseguire dei valori è molto superiore».
Non dobbiamo delegare le soluzioni ai politici
Foer lo ripete quando parla della sparizione della Foresta Amazzonica, il polmone verde del Pianeta: «Il problema non sono né Bolsonaro né Trump. Siamo noi che dovremmo impegnarci per raggiungere gli obiettivi necessari e segnalarli ai leader politici. Dovremmo fare come i nostri giovani: ci stanno indicando la strada e noi la stiamo seguendo. La soluzione contro i roghi? Se per un mese boicottassimo a livello mondiale la carne rossa, il mercato dell’allevamento ne risentirebbe, non avrebbe bisogno di creare spazi per i manzi bruciando le foreste. Potrebbe funzionare? Forse».
I giovani come Greta. Perché lei è riuscita a farsi ascoltare più di tanti esperti e studiosi che gridano “allarme!” da decenni? «Per due ragioni» spiega. «Il messaggio arriva da un bambino. E quando le cose le dice un bambino rispetto a un adulto l’impatto è diverso. Ci provoca un senso di colpa. Io l’ascolto volentieri, penso che sia saggia, anche se in realtà non dice cose che non sapessi già. Poi è un’eccellente relatrice, onesta, autentica. Io non sono in grado di fare quello che ha fatto lei, non potrei attraversare l’oceano in barca per andare in Europa. Ma non è questo il punto: Greta ci sta dicendo che dobbiamo riconoscere le conseguenze delle nostre azioni, ci sprona ad agire ed è un’ottima storyteller. Per questo più di una ciminiera che fuma o di un orso polare morente, il simbolo della lotta al climate change può essere lei».