Illustrazione di Silvia Forese.

L’8 marzo io non esco. Sto chiuso in casa, con le persiane tirate, la luce spenta. Vivo al buio. Non guardo la tv, non accendo la radio, se suonano al citofono non rispondo. Nessuno deve sentire che sono in casa. Su Facebook mi dò malato. Non rispondo nemmeno al telefono o al cellulare, non mi connetto su whatsapp per non farmi vedere online.

L’8 marzo io non faccio tutte queste cose perché ho paura delle donne e non ne voglio incontrare nessuna. Nessuna, indistintamente.

Innanzitutto per la faccenda degli auguri. Perché non so mai se farli oppure non farli. Perché, quando li faccio, incappo in gruppi di donne che pensano che l’8 marzo non sia una festa e che quindi non ci sia proprio un bel niente da festeggiare; quando invece non li faccio incappo in gruppi di donne che pensano che l’8 marzo sia una festa e che quindi vada festeggiata, con tanto di auguri e possibilmente le mimose.

In entrambi i casi, qualcuna finisce per offendersi. A volte, smette di rivolgermi la parola per giorni, mesi, qualche volta per sempre. Mi dice che sono un maschilista, un superficiale, un distratto e un mascalzone. Forse è vero, ma non lo faccio apposta. «Io volevo solo farti gli auguri» le dico, come un cane bastonato. Ma lei non mi ascolta. Mi ha già cancellato da facebook, dalla rubrica del suo cellulare, dalla memoria del suo cuore.

La sera soprattutto non esco perché, poi, nelle pizzerie, ho paura di trovarmi accerchiato, di finire in mezzo a quelle tavolate di donne arrabbiate e furiose che si riuniscono per parlare male dei loro mariti, dei fidanzati, degli ex, degli amanti, delle libertà che vorrebbero prendersi, se non fossero incastrate dentro la famiglia o un rapporto che respira a fatica. Ho paura che mi aggrediscano, che mi lincino mentre sono sto per mangiare l’ultimo spicchio di diavola; lo fanno apposta a farti mangiare prima tutta la pizza e magari anche il dolce, così diventi più grasso, fanno come la strega di Hansel e Gretel loro.

Quindi, l’8 marzo sto barricato in casa e non esco. Poi, però, inizio a sentirmi solo. Inizio a pensare alle persone che mi piacerebbe incontrare, le cose che mi piacerebbe fare, i posti in cui mi piacerebbe andare (se non ci fosse questo problema degli auguri e delle donne in pizzeria), e scopro che tra le persone che mi piacerebbe incontrare ci sono molte donne, e poi anche le cose che mi piacerebbe fare, mi piacerebbe farle con delle donne e – ancora – mi piacerebbe andare in quei posti con delle donne.

Tengo lontano il telefono per non cadere in tentazione. Per non chiamare nessuna amica, per continuare a rimanere chiuso in casa. Però poi mi vengono in mente i loro sorrisi, il modo in cui smontano in modo sottile i miei ragionamenti grossolani da maschio, la loro bellezza, dentro cui racchiudono il senso profondo della vita, oggetto di ricerca instancabile di millenni di pittura. Il modo in cui trasformano la debolezza a cui sono state relegate da anni di Storia al maschile in energia per passare sopra tutto, perché loro – più degli uomini – sanno dove si trova l’essenziale.

Ho bisogno di odorare il senso profondo della vita. Come certe mattine che devo lavorare a casa e invece ho bisogno di uscire, di vedere il sole addosso alle strade e ai palazzi, sulla frutta al mercato. In fondo, chi se ne frega degli auguri, chi se ne frega anche della diavola, che poi tutta la notte c’ho sete. Prendo il telefono, compongo un numero, parlo: «Pronto, Francesca?».

 

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