Ho trascorso con le mie figlie più tempo di quanto probabilmente mia madre ne abbia trascorso con me. Cuciniamo, facciamo sport, leggiamo, progettiamo, costruiamo. Questo tempo lo considero il mio più grande successo: vederle crescere, assistere alle loro scoperte è un giro in più vinto alla giostra della vita.
Oggi mi sembra di averlo sempre pensato. Ma, se forzo la mia memoria, riesco a tornare a quando le mie figlie erano sotto il metro. E il tempo trascorso con loro non era un desiderio, ma un dovere, una cosa giusta da fare, di quelle che non si discutono. Una specie di contratto firmato nel momento in cui avevo scelto di avere un figlio.
Il tempo con il figlio era stabilito in quel contratto. Poco, ma di qualità doveva essere. Ha finito per essere tanto e mai di qualità sufficiente, da perfezionare continuamente. Niente soluzioni di comodo: televisione, tablet, videogame. Impegno cognitivo e attenzione massima. E senso di colpa altissimo perché, a dispetto dell’oggettiva quantità di tempo spesa con loro, non mi sembrava mai abbastanza. Sono stata vittima, come tante, di quel modello culturale che la sociologa Judy Wajcman ha definito “maternità intensiva”, «in nome del quale ci si aspetta che le donne sacrifichino la propria carriera, il tempo libero e qualunque altra cosa possa servire per far crescere i figli nel modo migliore». Anche i padri, o per lo meno quelli come mio marito, sono vittima di paternità intensiva. Durante il weekend o alla sera, di ritorno dal lavoro.
Ho trascorso i primi anni da madre sottilmente arrabbiata con il padre delle mie figlie. Non potevo rimproverargli nulla di oggettivo, solo qualcosa che succedeva nelle nostre rispettive teste. Il tempo del lavoro per me era divenuto tempo rubato alle figlie, da ridurre al minimo, da espiare continuamente. Mentre il tempo del lavoro, per lui, era il suo modo di prendersi cura delle figlie, di provvedere a loro. Questo era indipendente da quanto ciascuno di noi contribuisse al sostentamento familiare. Atteneva solo ed esclusivamente a cosa significa essere madre e padre nella società in cui siamo cresciuti.
C’è voluta una terapista a farmi fare pace con il tempo. E a farmi capire ciò che scrive la psicologa Sylviane Giampino: «Quando i genitori sono alle prese con se stessi, invece di essere costantemente accanto ai figli, questi ultimi si sentono liberati e si dedicano a ciò che compete loro: crescere».
È allora che il tempo con le figlie è diventato più desiderio che dovere. È allora che ci siamo date lo spazio reciproco per continuare a crescere.
Oggi che si avvicina la mia tredicesima festa da mamma, sento che c’è una conversazione rimasta irrisolta nella mia coppia felice. Riguarda la diversa concezione del tempo che hanno il padre e la madre alla nascita del figlio. Se da una parte lo smartworking ha indubbiamente complicato la vita dei genitori, dall’altra sta offrendo loro un’opportunità straordinaria.
Non c’è un ufficio in cui rifugiarsi, ciascuno ha sotto gli occhi il tempo dell’altro, quello del lavoro e quello con il figlio. È la grande occasione per fondare la prima vera democrazia del tempo. Non sprechiamola.