Quella appena trascorsa è stata una settimana speciale. Con un’amica e una bicicletta, ho attraversato mezza Italia, da Milano a Roma, lungo la Via Francigena, una trama di strade minori percorse nei secoli dai pellegrini che si recavano alla tomba di Pietro. Sono tante le considerazioni che questo viaggio mi ha ispirato. Ma ce n’è una che voglio condividere con voi. Riguarda l’accoglienza. Appena lasciata Pavia alle nostre spalle il sabato mattina, abbiamo smesso di essere le cicliste del weekend, per divenire pellegrine. Abbiamo iniziato a sentirci tali perché hanno iniziato a riconoscerci così. Eravamo come il vento fresco che tornava a soffiare dopo oltre un anno. Le prime pellegrine a ripercorrere quella via. Un buon auspicio, l’annuncio di una nuova stagione.

Abbiamo attraversato 5 regioni e oltre 100 paesi. Ovunque, il calore dell’accoglienza ha preso la forma di pasti caldi, urla di incoraggiamento, soccorso, riparazioni improvvisate, asciugatura di vestiti fradici, bevande calde. Ci hanno chiesto da dove arrivavamo ma non chi fossimo. Non ce n’era bisogno. Ci hanno riconosciute come appartenenti a una tipologia umana degna di rispetto per la fatica e il sudore a cui si sottopone. E fa niente che siamo due donne benestanti, con un lavoro e una famiglia, che si sono messe in viaggio per desiderio di avventura e non per bisogno, e che (quasi) ogni sera potevano contare su una doccia calda e cibo a volontà. Il popolo della Francigena per 8 giorni si è preso cura di noi. L’accoglienza è parte del nostro essere umani. Ma troppo spesso è legata al “riconoscere” l’altro, al riuscire a incasellarlo a colpo d’occhio in una categoria nota e non temibile, degna di rispetto e dunque meritevole di accoglienza.

Ho provato a immaginare cosa succederebbe se un migrante, durante ogni singola tappa del suo viaggio epico da un Paese dilaniato dalla guerra o dalla povertà, incontrasse l’accoglienza che è toccata a noi. Sarebbe normale e istintivo, se il suo viaggio fosse catalogato per ciò che: la ricerca di una vita migliore, fatta al costo di perdere quella stessa vita. Ma non è così. Anche loro vengono riconosciuti a colpo d’occhio, ma incasellati in coloro che faranno rumore, sporcheranno, ruberanno il lavoro, delinqueranno. Conoscere è un livello ancora successivo, ben più faticoso di riconoscere. Significa ammettere di non poter incasellare un essere umano al primo sguardo e prendersi il tempo di ascoltare la sua voce. Significa rinunciare a catalogazioni immediate, per accettare l’unicità dell’individuo.

È ciò che sul numero di Donna Moderna in edicola il 20 maggio chiedono le seconde e terze generazioni, che portano indosso i segni dell’altrove da cui i loro nonni o genitori provengono e che in virtù di quell’altrove, di quel viaggio compiuto tempo addietro, sono portatrici di idee, gusti e punti di vista nuovi, interessanti, spiazzanti. Conosciamoci è l’invito di questo numero. Perché prendersi il tempo e l’abitudine di conoscere renderebbe tutti noi infinitamente più ricchi.

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