Issaka ha 22 anni e viene dal Burkina Faso. La scorsa estate, da luglio a metà novembre, ha lavorato nei campi raccogliendo mirtilli e lamponi. Tre contratti con 2 datori di lavoro diversi, per un totale di 36 giornate lavorative segnate in busta paga, a fronte di un impegno molto più alto: «A parte le domeniche e qualche sabato» racconta «ero sempre nei campi. Ma non potevo lamentarmi perché tutti erano nella mia stessa condizione. Se avessi denunciato, avrei perso il lavoro». A fine stagione, dopo qualche piccolo acconto, Issaka riceve il suo compenso, ben al di sotto del salario minimo: «Mi hanno pagato 5 euro all’ora». A Oumar è andata anche peggio: cacciato dopo 2 mesi senza aver ricevuto un euro. La ragione? Il padrone non era soddisfatto del suo lavoro.
Storie di sfruttamento e di caporalato, che non arrivano, però, dalle campagne di Foggia o della piana di Gioia Tauro, ma dal “civile” Nord. Precisamente da Saluzzo, in provincia di Cuneo. Solo pochi giorni fa 200 braccianti africani hanno scritto al sindaco per chiedere assistenza. Sono stati chiamati per lavorare, come ogni estate, ma non c’è spazio per loro nel dormitorio comunale da 368 posti: «Siamo a Saluzzo per cercare lavoro» scrivono. «Guardate la situazione in cui ci troviamo: quanti siamo a dormire fuori, senza una tenda, senza acqua. Non si può vivere così».
La mappa dello sfruttamento, dal Piemonte alla Liguria
Questo non è che uno dei tanti distretti settentrionali in cui vige la regola del caporale. «Al Nord Il fenomeno ha una struttura diversa, ma è presente quanto al Sud» spiega il sociologo Marco Omizzolo, uno dei massimi esperti del fenomeno in Italia. Ma se «nel Meridione è lavoro per la produzione di beni di largo consumo, come il pomodoro, nel Nord Italia è inserito nella produzione di prodotti di nicchia, come il vino Chianti» sottolinea Leonardo Palmisano, autore del libro-inchiesta Mafia caporale (Fandango). I rapporti dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil (l’ultimo è del 2016) e dell’Eurispes (2017) permettono, in effetti, di disegnare una mappa dello sfruttamento anche al Nord. In Piemonte, per esempio, oltre a Cuneo ci sono Alessandria e Asti dove profughi, richiedenti asilo e anche italiani lavorano a 5 euro all’ora, con forbici, guanti e stivali a spese loro.
«In questa Regione» spiega ancora Omizzolo «gli occupati nel settore agro-alimentare sono circa 71.000, di cui oltre 20.000 stranieri. Le nazionalità maggiormente impiegate sono quella cinese, marocchina, romena, indiana e albanese». A Carmagnola (To), un bracciante di 45 anni romeno è morto a causa del lavoro intensivo e dei 50 gradi in serra. In Toscana, diverse centinaia di migranti, soprattutto romeni, bulgari, bangladesi e albanesi, continuano a essere impiegati nelle aziende agricole tra Siena e Grosseto. E poi c’è la Liguria. «I prodotti ortofrutticoli della Piana di Albenga» spiega ancora Palmisano «sono rinomati in tutta Europa. Eppure qui c’è un sistema di sfruttamento di braccianti, soprattutto maghrebini, maggiore rispetto perfino ad alcune zone del Sud Italia».
In Lombardia, invece, spiccano per numero di stagionali i distretti di Lecco, Pavia, Monza e Milano e Mantova. È qui che ha lavorato Hassan, marocchino di 40 anni. Arrivato in Italia dopo aver pagato 6.000 euro per il viaggio e per il lavoro, dopo 6 mesi nei campi comincia a ricevere solo 700 euro, nonostante una busta paga nominale di 1.200 euro. Il mese seguente non gli vengono dati neanche quelli. Ottiene solo poche decine di euro ogni settimana per fare la spesa. Diversi mesi dopo Hassan scopre che la sua situazione è del tutto irregolare e che rischia di essere rimandato in Marocco. Denuncia, allora, tutto alla polizia. E così scopre che l’amico che lo aveva invogliato a venire in Italia era un trafficante, che il suo datore di lavoro aveva ricevuto circa la metà dei 6.000 euro pattuiti, di cui il suo salario era che una parte.
Le false cooperative
E, ovviamente, laddove c’è sfruttamento, c’è anche criminalità. «In Emilia, nel settore della lavorazione delle carni è ormai acclarato il controllo di grandi famiglie della ‘ndrangheta» spiega ancora il giornalista Palmisano. Ed è nella provincia di Modena che il caporalato ha assunto la sua forma più evoluta. «Qui il sistema è sofisticato: non si pone nella zona nera dell’illegalità, ma in quella grigia ai margini tra il liecito e l’illecito» dice Umberto Franciosi della Flai Cgil. «Le imprese indicono appalti che spesso, però, vengono assegnati a false cooperative, affidate a semplici prestanome che possono arrivare a intestarsi fino a 10-15 aziende. Sono persone che non hanno nulla che possa essere “aggredito” patrimonialmente e che portano queste aziende, che oltre a sottopagare i lavoratori non versano né l’Iva né l’Irap, a indebitarsi con lo Stato in pochi anni, a volte anche per milioni di euro». Ma c’è di più. Le cooperative vengono spesso intestate agli stessi lavoratori che, non conoscendo l’italiano, firmano di tutto. Lulja, 30enne albanese, è stato per molto tempo presidente di una di queste a sua insaputa. Lo ha scoperto solo quando la Guardia di Finanza ha bussato a casa sua e gli ha detto che avrebbe dovuto saldare un debito di 1,7 milioni di euro.
Luci e ombre della nuova legge
Nel 2016, sulla spinta della la morte di Paola Clemente in Puglia, è stata approvata una nuova legge che introduce la responsabilità penale per l’impresa oltre che per il caporale, e la confisca dei beni. «È un’ottima norma sul piano repressivo, ma manca quello preventivo» commenta il sociologo Marco Omizzolo. La legge non prevede, per esempio, un «sistema di welfare per la vittima di caporalato o per il testimone nella fase processuale, quando rischia di perdere il lavoro».
I numeri del fenomeno
21,8 è questo, in miliardi, il volume d’affari delle mafie nei settori agricolo e agroalimentare nel 2016. Secondo il rapporto Eurispes, rispetto al 2015 la cifra è salita del 30%. 80 gli epicentri in Italia in cui l’Osservatorio Placido Rizzotto della Cgil ha riscontrato «fenomeni di grave sfruttamento in agricoltura e caporalato». 400mila i lavoratori irregolari del settore; 100.000 quelli «in condizioni di sfruttamento e grave vulnerabilità». L’irregolarità implica un ammanco per le entrate statali tra 3,3 e 3,6 miliardi di euro