Siamo tutte Giulia, Giulia figlia di tutti, Giulia sorella, amica, Giulia nostra. Tutte in piazza per Giulia. Ma Giulia Cecchettin era sola. E lo era da molto tempo.
L’ossessione di Filippo Turetta per Giulia Cecchettin
Il cellulare di Filippo Turetta vomita in queste ore tutto il malato della relazione tra i due ragazzi: negli ultimi due anni, lui le aveva mandato più di 300 messaggi al giorno, in tutto 225.720. Tre giorni prima di ucciderla, aveva scaricato una app per controllarla, il giorno in cui l’ha uccisa le aveva scattato 52 foto. Un’ossessione che lei aveva capito («Così mi fai paura, ti comporti come uno psicopatico») ma da cui però non riusciva a uscire, e che aveva confidato a piccoli pezzi: un pezzo alla sua amica, un altro pezzo alla sorella Elena. Chissà se aveva detto qualcosa al padre. La mamma non c’era già più.
Perché Giulia Cecchettin non aveva parlato
Perché Giulia non aveva parlato? Perché chi è dentro a questo vortice, che senti che ti tira sempre più giù, non riesce a risalire? Perché questa corrente ti trascina e tu non ti rendi conto che potresti anche non emergere più? Perché non lasci che gli altri ti salvino? Perché vuoi salvare solo lui? Le domande sono tante, la risposta una: ti senti in colpa, ti senti responsabile del fatto che lui si comporti così. Pensi insomma che sia colpa tua se lui sta male, quindi quello da salvare è lui. Tutto accade infatti molto spesso perché l’altro, il violento, fa leva proprio sul tuo senso di colpa, come spiega la criminologa Roberta Catania: «I messaggi di Turetta sono emblematici: “Mi stai uccidendo, mi stai cancellando”, “Io soffro”, “Sei cattiva”. Una manipolazione che non usa tecniche aggressive, ma pesca nel vittimismo e nel senso di pietà.
I gesti violenti non bastano a farti scappare
Un bombardamento incessante e soffocante, con l’obiettivo manipolatorio di rovesciare la responsabilità: «Sei tu la responsabile del dolore di lui. E quando ti senti responsabile della sofferenza altrui, vuoi solo redimerti» prosegue la criminologa. «E ti redimi restando agganciata a quella persona. Non puoi abbandonarla, nonostante atteggiamenti opprimenti e magari anche violenze fisiche. Emerge infatti in queste ore che lui aveva avuto dei gesti violenti, come trattenerla per un braccio e qualche schiaffo sulla gamba. Ma lei non lo aveva raccontato. Perché? «Perché non vuoi sporcare l’immagine dell’altro, non vuoi esporlo alla bruttezza del giudizio altrui: lo proteggi dallo sguardo degli altri perché pensi di essere tu la causa dei suoi comportamenti, ti senti in qualche modo complice, quindi tradendo lui, tradisci un po’ anche te stessa».
Il senso di colpa pesa due volte
Nello stesso tempo ti maceri nel senso di colpa di restare agganciata a questa storia, di non riuscire a venirne fuori: perché te ne rendi conto, eccome. «Ti senti responsabile due volte: per la sofferenza di lui, e per la tua debolezza. Nel caso di Giulia, la morte della madre probabilmente l’aveva resa protettiva nei confronti della sua famiglia. Avendo già sofferto tutti molto, la sua vicenda avrebbe solo aggiunto altro dolore. Meglio tenerlo per sé, meglio sbrigarsela da sola: per amore verso i familiari, ma anche per vergogna. Ammettere di non farcela, di avere sbagliato, di essere dentro a una relazione tossica, non è facile». Vedi degli stralci di verità, te ne rendi conto, ma non la vuoi vedere fino in fondo, perché predomina la parte di te non votata alla tua sopravvivenza, ma alla cura dell’altro. «In queste relazioni di possesso e manipolazione la cura dell’altro è in qualche modo funzionale a curare noi stesse: se guarisco lui, guarisco anche me ma soprattutto mi redimo dal fatto di essere io la responsabile di avergli provocato tutto quel dolore. Infatti negli ultimi messaggi si legge che Giulia voleva allontanarsi in modo sereno, restando amici. Non lo cacciava ma gli diceva “Voglio aiutarti”. E lui faceva ancora più leva sul vittimismo: “Noi ci vogliamo bene, siamo legati, siamo due patatini”». A leggere queste parole vengono i brividi.
Nel frattempo Turetta, di cui il padre – deresponsabilizzandolo – aveva detto «Gli è saltato un embolo», scaricava l’app per controllarla e preparava il kit da sequestro: corda, scotch, forbici, zaino, mappa. Un piano puerile ma diabolico nella sua lucidità. Talmente lucido che ha raccontato di essersi fermato solo quando l’ha colpita nell’occhio «Perché mi ha fatto senso». La banalità del male ha ucciso ancora. Nessuna pietà per questo ladro di vita e d’amore, nessuna attenuante per chi ha programmato la morte di una figlia, una sorella, un’amica.