La vita nei call center 10 anni fa: quattro ore di lavoro senza pause. Il bagno? Se indispensabile. Pochi soldi, tante promesse e team leader che ti bombardano di slogan aziendali. Dieci anni fa il romanzo di Michela Murgia “Il mondo deve sapere” (ora ripubblicato da Einaudi), che ha ispirato il film di Paolo Virzì “Tutta la vita davanti”, accendeva i riflettori sul mondo dei call center. Oggi com’è la situazione? Lo sfruttamento più sfacciato sembra ridotto. Ma anche chi ha la fortuna dell’assunzione vive nell’incertezza.
I dipendenti sono soprattutto donne
Nel settore si contano 80.000 addetti, per il 70% donne, con metà delle sedi operative al Sud. «Su questo, la situazione non è cambiata. Il call center resta uno sbocco lavorativo forte per le aree svantaggiate» racconta Giorgio Serao, segretario nazionale della Fistel-Cisl. L’età media, però, aumenta. Nel 2008, secondo l’Isfol, il 70% dei lavoratori era under 35, con un terzo di studenti. Oggi gli over 40 sono già il 34%.
Non è più un’occupazione transitoria
«Da occupazione transitoria è sempre più un vero lavoro» racconta Rita Palidda, sociologa del lavoro dell’università di Catania, autrice di I call center in Italia (Carocci). Così, al posto degli studenti universitari, sono arrivati i laureati. Prima erano solo il 7%, oggi in una multinazionale come Comdata (1.000 addetti in Italia) sono il 40%. «Il profilo si è alzato. Ora servono conoscenze informatiche e se gli addetti in “outbound” (cioè quelli del telemarketing) lavorano essenzialmente al telefono, una parte crescente dell’assistenza inbound (che risponde a chi chiama un’azienda in cerca di informazioni e aiuto) si svolge sui social network o via app» continua Rita Palidda.
I posti sono per lo più part-time
La paga non è alta, perché quasi l’80% degli addetti è part-time. «In media portano a casa 600 euro al mese. Pochi fortunati, assunti stabilmente da anni, arrivano a 1.000» dice l’esperta. Meglio, comunque, del “più parli più guadagni” dell’inizio degli anni 2000. In molte aziende le tabelle erano ferree: niente soldi per una telefonata inferiore ai 20 secondi, 10 centesimi per un minuto di conversazione, a salire fino al top: 85 cent per 2 minuti e mezzo.«Oggi c’è una concentrazione delle imprese: le prime 5 o 6 multinazionali fanno da sole la metà del mercato. Almeno 50.000 persone lavorano nell’ambito di contratti nazionali, spesso quello delle telecomunicazioni, che dal 2013 tutelano anche i collaboratori, oltre agli assunti, con contributi, ferie e permessi» dice Giorgio Serao.
La delocalizzazione ha dimezzato gli addetti in Italia
Una volta gli impiegati erano il doppio di oggi. Poi sono arrivate la crisi e la famigerata pratica degli appalti al ribasso. «I grandi committenti, dalla telefonia all’energia, affidano gli incarichi al call center che fanno il prezzo minore, non importa la qualità» dice Serao della Cisl. Così chi vince i bandi poi non sta nelle spese, licenzia o delocalizza. Sei anni fa 4.000 operatori rispondevano o chiamavano gli italiani dall’estero, soprattutto da Albania, Romania e Tunisia. Oggi siamo a 10.000. «Un albanese costa all’impresa 4 euro lordi l’ora, a fine mese arriva a 300 euro e, per il suo costo della vita, è una buona occupazione. Un assunto a tempo indeterminato, da noi, costa 19 euro. Non c’è partita» aggiunge il responsabile Cisl.
Ci sono ditte che chiudono da un giorno all’altro
Si vive alla giornata: se scompare un buon cliente, la ditta rischia di chiudere o di lasciarti a casa. È appena successo a 20 addetti della Gepin, cui la Regione Lombardia non ha rinnovato la commessa. Il governo è corso ai ripari: ha azzerato qualsiasi beneficio fiscale per chi delocalizza extra Ue e imposto che, quando cambia un appalto, i lavoratori in esubero siano riassorbiti dalla ditta entrante. Ma questo riguarda solo chi nel settore opera alla luce del sole.
Ancora molti addetti non sono tutelati da contratto
20.000 persone non hanno contratti e retribuzioni in regola. Ci sono centinaia di piccole attività, fuori dai contratti nazionali, poco o per nulla controllate, che fanno parte della filiera. «Anche il grande call center, titolare della commessa, esternalizza a sua volta un pezzo di lavoro» dice Serao. Si scoprono casi come quelle denunciato dalla Cgil a Taranto: 20 ragazzi, in un garage, telefonavano per conto della Tim a 2,5 euro l’ora, privi di contributi e assicurazione, senza che il gruppo di telefonia ne sapesse nulla. Si stima siano 20.000 gli addetti che operano fuori dalle regole, pagati in nero, con voucher o contratti a tempo parziale ma impiegati full time, domeniche comprese.
Si investe poco in formazione
Che ne è stato degli sms ossessivi dei team leader e degli slogan aziendali sparati al megafono mostrati dalla pellicola di Paolo Virzì? «Sono casi limite, ne ho conosciuti pochi. I ritmi stressanti e le tecniche di vendita insegnate in un paio di giorni sono aspetti generali dell’ambito commerciale, non solo dei call center» nota Serao della Cisl. «I problemi veri sono altri: si spende pochissimo in formazione e nella retribuzione c’è una quota variabile troppo elevata. Ai lavoratori si chiede di sposare la causa dell’impresa e di essere flessibili. In cambio cosa si offre? La precarietà».
Il servizio per i consumatori è migliorato
È un mondo a due facce. «La qualità dell’assistenza è migliorata. In tutti i settori, dalla telefonia alle assicurazioni, c’è concorrenza e le imprese sanno che la soddisfazione del cliente è centrale» dice la sociologa Rita Palidda. Prendiamo la telefonia. Nel 2010 l’Agcom (l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) aveva ricevuto 5.383 denunce dai consumatori, in buona parte per l’attivazione di servizi non richiesti, mentre nel 2016 le denunce sono scese a 4.000. Tra i fornitori di elettricità e gas, sono migliorati i tempi di attesa: nel 2008 servivano 2 minuti prima di parlare con un operatore, oggi siamo sotto gli 80 secondi. E il giudizio medio sul servizio è salito dal punteggio di 86 a 93.
La vera giungla ora è nel telemarketing
Riceviamo così tante telefonate con proposte di servizi e abbonamenti, che persinoAssocontact, un’associazione di categoria dei principali call center, ha ammesso che si sta esagerando, «soprattutto a causa di piccole imprese troppo spregiudicate, spesso operanti dall’estero» dice il vicepresidente Umberto Costamagna.
I sistemi per difendersi dalle telefonate indesiderate
Già 1 milione di italiani è iscritto al Registro delle opposizioni, un elenco che contiene i numeri di chi esprime la volontà di non ricevere telefonate indesiderate. Strumento che ha due limiti: vale solo per i numeri fissi ed è comunque aggirato. Il governo sta studiando una norma per estenderlo anche alle numerazioni mobili e ha reso obbligatorio, per i call center esteri, dichiarare all’inizio della chiamata il Paese da cui chiamano ed eventualmente dirottarci su un “collega” di casa nostra. Sulla questione potrebbe muoversi l’Ue: Bruxelles sta pensando a una sorta di prefisso unico europeo, che sarebbe utilizzato da tutti i call center comunitari. Così, guardando il display, potremmo decidere subito se rispondere. Per ora, però, è solo un’ipotesi in una bozza di regolamento sulla riservatezza personale.