Dire che bisogna (ri)assumere i 50enni può suonare provocatorio in un Paese colpevolmente disattento verso i giovani, tanto da lasciarne troppi senza un impiego. E stride rispetto alla politica che ha scelto di far uscire – più o meno munificamente – i senior dalle aziende. Quell’affermazione acquista però un senso se si sgombra il campo da polemiche che fomentano solo la guerra tra generazioni, mentre il problema cruciale che riguarda tutti, a prescindere dall’età, è la formazione non adeguata rispetto alle esigenze del mercato del lavoro. Un problema non ancora affrontato, perché si sono preferiti interventi più semplici e rapidi ma poco efficaci nel lungo periodo.
I 50enni spazzati via dai prepensionamenti
Negli ultimi anni i dipendenti più anziani sono stati lo strumento con cui si sono rattoppati parecchi bilanci societari. «Nelle aziende medio-grandi i prepensionamenti sono stati il modo privilegiato di alleggerire il personale» spiega Gianbattista Rosa, fondatore e Presidente di Active Ageing Academy e autore di Active Ageing in azienda (FrancoAngeli). «Questo ha prodotto una sorta di discriminazione incentivata dalla legge: a una certa età, a prescindere dalle capacità individuali, si era visti non più come risorse ma solo come un costo e un peso». Risultato? La popolazione lavorativa over 50 ha comunque continuato a crescere, perché siamo un Paese che sta invecchiando (gli over 50 sono 9,1 milioni) ma su di essa si è smesso di investire a livello di coinvolgimento e formazione. Così ci si è ritrovati con 50-60enni non più in grado di svolgere mansioni faticose nelle fabbriche o soverchiati dallo stress psico-tecnologico negli uffici.
Le donne a 50 anni sono imprigionate nel care giving
L’idea che “da una certa età non servi più e non sei in grado di imparare” è parsa avere conferma nella realtà. Per le donne, poi, la realtà è ancora più antipatica. Non c’è stagione lavorativa sorridente per noi, men che meno quella alle soglie della pensione. «Le lavoratrici hanno mediamente stipendi annuali del 43% più bassi degli uomini e accumulano meno contributi perché spesso fanno più part time, lavori precari e sono costrette a interruzioni di carriera per seguire la famiglia: prima i figli, poi i genitori anziani e magari anche i suoceri o lo stesso coniuge» dice Emanuela Notari, esperta di longevity planning. «Le donne sono insomma spesso imprigionate in un ciclo di care giving perenne e sfibrante». Alcune aziende offrono sportelli di ascolto psicologico, una banca delle ore a cui attingere e anche una flessibilità per consentire una migliore presenza sul fronte familiare. «Ma c’è anche il problema dei capi che spesso sono più giovani dei loro collaboratori e, quindi, faticano a capire il carico di stress e responsabilità che soprattutto le lavoratrici hanno e che, se non affrontato in modo collaborativo, può incidere sulle prestazioni professionali» aggiunge Rosa.
I 50enni conoscono la cultura aziendale
Tutto questo avviene mentre il mercato del lavoro imbandisce nuovi scenari. Ci si sta rendendo conto che sia per gli uomini sia per le donne, in molti settori, avere esperienza e conoscere la cultura aziendale è un valore. «Le imprese devono stare attente a non perdere competenze, specie oggi che faticano a trovare alcune figure, agevolare il reskilling e cogliere la sfida della “long-term employability”, ovvero della lettura continua delle competenze di tutti i dipendenti per coprire i ruoli in evoluzione» dice Alessandra Giordano, Direttore Employability di Intoo (Gi Group Holding). «In tema di valorizzazione delle competenze dei senior, è interessante l’esempio di un’azienda che l’anno scorso, cambiando la linea produttiva, ha chiesto ai lavoratori senior di redigere i manuali della linea vecchia perché poi sarebbero serviti anche a chi operava su quella nuova».
Negli Usa si riassumono i pensionati: ecco i “longennials”
Se queste persone diventano strategiche, ora il problema è farle restare e «negli Usa il fenomeno è lampante» dice Rosa «tanto che è in corso il “re-hiring”, la riassunzione di pensionati». Più che ritorno dei Baby boomer, è la consacrazione di quelli che si definiscono “Longennials”, generazione che anche lavorativamente vive in modo attivo e a lungo. «Gli esperti di longevità americani dicono che si smetterà di depositare le chiavi dell’ufficio o la cazzuola di punto in bianco, cioè non ci sarà più un passaggio brusco da tempo pieno a zero lavoro ma un percorso graduale» spiega Emanuela Notari. «Bisogna mettere le persone in condizione di lavorare più a lungo anche se con formule contrattuali diverse».
I 50enni devono aggiornarsi, ma anche tutti gli altri
Alessandra Giordano aggiunge: «Al tempo stesso il singolo deve sentire la responsabilità di mantenersi “occupabile”: deve essere consapevole delle sue skills e proattivo nel ridurre le carenze a livello professionale, avvalendosi anche delle opportunità di formazione che l’azienda mette a disposizione, oltre a saper accogliere progetti di mobilità interna e di cambiamento. A qualunque età».
I senior, però, sono considerati i nemici del cambiamento. «Per la mia esperienza è vero fino a un certo punto» controbatte Rosa. «Magari all’inizio mostrano la maggiore resistenza, ma l’implementazione di progetti di cambiamento funziona meglio se affidata a team intergenerazionali, dove spesso l’anziano procede sì con un passo più lento, ma più metodico e consapevole di eventuali trappole sul percorso. Il rischio vero è invece il fatalismo: si invecchia quando si ha la sensazione di non poter cambiare le cose».
Un consiglio per evitarlo? «Pensiamo alla differenza tra lavoratori autonomi e dipendenti: i primi, dal panettiere all’architetto, anche a 60-65 anni, non li percepiamo vecchi. Perché, un po’ come i gatti selvatici, vivono dinamici: con più rischi ma a contatto diretto con il mercato e sanno di doversi aggiornare. Il dipendente tende a imitare il gatto domestico e a starsene più comodo. A ogni età serve invece uno scatto felino fatto di formazione, flessibilità e fiducia nelle proprie capacità».