Un esercito di donne che potrebbe contribuire al rilancio del Paese, ma che incontra molte più difficoltà sul mercato del lavoro dopo un figlio. Così viene descritta la situazione in Giappone dopo un anno e mezzo di pandemia stando agli ultimi dati governativi, riportati dalla Bbc, che rilevano un problema che in Italia conosciamo bene: quello della precarietà dell’occupazione femminile. Storicamente, in Giappone circa il 60% delle donne ha lasciato il lavoro dopo il primo figlio perché il reddito del marito poteva sostenere l’intera famiglia, cosa che è stata per lungo tempo considerata un privilegio. Ma la situazione negli ultimi anni è cambiata di molto, in un Paese come il Giappone che ha la popolazione più anziana al mondo (l’Italia è al secondo posto).
Consapevole del problema, l’ex primo ministro Shinzo Abe, che nell’agosto 2020 è stato sostituito dal suo braccio destro Yoshihide Suga – Abe è il primo ministro rimasto in carica più a lungo nella storia della politica giapponese, prima dal 2006 al 2007 e poi dal 2012 fino alla scorsa estate – nel 2013 aveva lanciato una serie di nuove riforme intitolate “Womenomics” per incentivare il lavoro delle donne e promuovere la loro presenza in ruoli di leadership in un Paese che è ancora oggi dominato dagli uomini. Già prima dell’introduzione di quelle politiche, le madri stavano iniziando a tornare al lavoro ma, allo stesso tempo, i loro redditi familiari diminuivano. Solo il 42,1% delle donne si è dimesso nel 2019, facendo salire i tassi di partecipazione al mercato del lavoro al 70,9% per le donne di età compresa tra 15 e 64 anni e del 77,7% nella fascia di età tra i 25 e i 44 anni.
Le donne lavorano, ma hanno stipendi più bassi e meno sicurezze
Per sostenere questo cambiamento nella società, il governo ha cercato di introdurre varie iniziative, dalla campagna per eliminare le liste d’attesa per l’assistenza all’infanzia, pensata per agevolare i neogenitori nel ritorno al lavoro, fino alla pressione fatta sulle grandi aziende perché almeno una donna fosse inclusa nei quadri dirigenziali. Queste iniziative, però, spesso non sono state accompagnate da incentivi finanziari concreti o da sanzioni per le aziende che non si impegnassero nella parità di genere, con il risultato che molte donne sono rimaste bloccate in ruoli part-time, precari oppure senza reali prospettive di crescita. Secondo il World Economic Forum, in media il reddito di una donna giapponese è inferiore di oltre il 40% a quello di un uomo.
Un problema che la pandemia ha aggravato…
Eppure le lavoratrici in Giappone sono qualificate esattamente come i loro colleghi: più della metà che oggi entra nel mondo del lavoro possiede un livello di studi universitario, quasi lo stesso numero degli uomini. Ma quando le donne si congedano da un lavoro a tempo pieno per prendersi cura dei figli, è quasi impossibile che ritornino alla loro carriera originale, come spiegano gli esperti alla Bbc, al punto che molte, nonostante le qualifiche, scelgono di fare lavori che sarebbero più adatti a studenti alle prime esperienze. Quando si rimettono sul mercato del lavoro, per molte è difficilissimo ottenere anche solo un colloquio, visto che il “gap” sul curriculum, ovvero gli anni in cui si sono prese cura della loro famiglia, è visto come una mancanza non recuperabile.
… e che non conosce confini nazionali
Un problema che non riguarda certo solo il Giappone e che la pandemia ha ulteriormente aggravato: basta pensare che in Italia, negli ultimi 2 mesi del 2020, su 101.000 persone che hanno perso il lavoro, 99.000 erano donne. Se si guarda all’intero anno, le quota delle donne disoccupate ha raggiunto la drammatica cifra del 75% (379.000 su 520.000) e ha fatto scendere la percentuale di impiego femminile dal 51% al 48,2%, ancora più lontana dalla media Ue che supera il 62%. Non è un caso che le stime emerse dalla quindicesima edizione del World Economic Forum sulle diseguaglianze di genere rilevavano lo scorso marzo come in ambito lavorativo inizieremo a parlare di parità tra uomo e donna alle soglie del 2300: una stima che, per quanto pessimistica, si basa su studi e proiezioni concrete. Dati tutt’altro che incoraggianti e che dimostrano, ancora una volta, quanta strada ci sia ancora da fare.