Il Garante per la Privacy ha avviato un’indagine su alcune App che “rubano” le nostre conversazioni attraverso i microfoni degli smartphone, per poi rivenderli a società che ci propongono pubblicità personalizzate. Come ci riescono? Semplice: molte delle applicazioni che usiamo ci richiedono al momento del download l’utilizzo del microfono. E, una volta ottenuto il nostro consenso, (che concediamo senza pensarci troppo) possono più o meno legalmente ascoltare ciò che diciamo, per poi rivendere i contenuti. Non è una novità per esperti, e in un certo senso non dovrebbe meravigliare neanche noi, come spiega Nicola Bernardi, presidente di Federprivacy, che commenta: «Ogni volta che scarichiamo una App gratuita dobbiamo essere consapevoli che il guadagno di quello sviluppatore siamo noi. Il profitto di quell’azienda arriva dai dati che noi cediamo per potere usare gratuitamente un servizio». Anche le grandi aziende di internet, prosegue l’esperto, sono assetati di dati, ma purtroppo nel cercare di sapere più cose possibili spesso ricorrono a strattagemmi più o meno legali. «Il solo fatto che persino noi addetti ai lavori facciamo fatica a capire e leggere le informative sulla privacy, già la dice lunga sul fatto che non siano buona fede». Proprio su questi aspetti sta indagando il Garante, in collaborazione con il Nucleo speciale privacy e frodi tecnologiche della Guardia di Finanza. I due organismi stanno verificando che le informative di alcune applicazioni molto note siano sufficientemente chiare e trasparenti e che i dati siano stati acquisiti in modo corretto. Come difenderci nel frattempo ? Ecco i consigli.

Non scaricare una app “qualsiasi”

La prima cosa da fare è tutelarci dalle App “truffaldine”, che ci rubano dati in maniera chiaramente illecita, senza il nostro consenso. Prima di scaricare un servizio o un’applicazione, meglio dunque fare una piccola ricerca per capire quanto sia affidabile la società che l’ha messa sul mercato. «Ci sono piccole aziende che vivono giusto il tempo di creare applicazioni e spariscono non appena sono entrate in possesso dei dati degli utenti» avverte Bernardi. «Sapere chi è lo sviluppatore è fondamentale. Il nome è sempre indicato negli app store, basta cercarlo e fare una piccola indagine: possiamo leggere le recensioni, sapere da quanto tempo è attivo e se ha sviluppato altre applicazioni, perché anche questa è una garanzia di affidabilità. O cercare altre informazioni digitando il nome su Google».

Anche un buon antivirus è un ottimo salvagente. «Andrebbe installato sullo smartphone esattamente come sul pc. Bastano uno o due euro al mese per avere un abbonamento che prevenga gli accessi abusivi ai microfoni e alle altre funzioni. L’antivirus ci segnala anche le App sono a rischio».

I trucchi nascosti nell’informativa

Il secondo step è leggere l’informativa sulla privacy tutte le volte che stiamo per scaricare una App. Non è semplice ed è noioso, ma ne vale la pena. «Serve a rendersi conto se le autorizzazioni che chiede sono legittime e se sono necessarie al suo funzionamento. Una cosa è che una app di videoconferenze chieda l’accesso al microfono, altro è se la richiesta arriva da una applicazione per modificare le fotografie. In questo caso meglio desistere», sottolinea Bernardi.

Verifica se la app ha accesso al microfono

Hai già sul tuo smartphone decine di applicazioni che hai usato per mesi senza sapere bene se ti “ascoltano” oppure no? Puoi verificare dalle impostazioni del tuo smartphone, alla voce “privacy”, quali hanno accesso al tuo microfono. A quel punto, la cosa più prudente da fare sarebbe negare il consenso a tutte, per concederlo solo al momento del bisogno, per esempio prima di inviare un messaggio vocale o di avviare una videocall. «Non è difficile, perché nel momento in cui attivi la funzione è la stessa App a chiederti di accedere al microfono. Più difficile è ricordarsi di disattivarlo a fine conversazione» dice Bernardi.

Perché è sempre utile proteggere i dati

Ne vale la pena? Il presidente di Federprivacy è convinto di sì: «Non sappiamo esattamente quale uso venga fatto dei nostri dati, cosa ne fa chi li acquista. Se si trattasse solo di pubblicità, sarebbe il male minore. Lo scandalo di Facebook e Cambridge analitica e l’elezione del presidente Usa Donald Trump ci insegnano però che chi sa tutto di noi può riuscire a condizionare persino il nostro voto, proponendoci spot o contenuti che fanno leva su temi per noi sensibili. Per assurdo, potremmo trovarci nella situazione di crederci informati su un determinato argomento, ma nella realtà ci siamo fatti una cultura solo sulla base di quello che ci hanno fatto vedere o sapere».