Secondo un sondaggio internazionale Gallup, il 75 % delle persone che lasciano il lavoro lo fa a causa del proprio superiore diretto, ritenuto mediocre, arrogante, incapace di autocritica. Sarà una coincidenza, ma statisticamente la stragrande maggioranza dei capi è di sesso maschile. E così Tomas Chamorro-Premuzic, professore di Psicologia aziendale all’University College di Londra e alla Columbia di New York, si è posto la domanda che dà il titolo al suo saggio appnea uscito: Perché tanti uomini incompetenti diventano leader? (Egea). La risposta: a determinare un pessimo capo non è tanto il suo genere, quanto il modo errato in cui vengono valutate le competenze che deve possedere.
Da dove nascono gli errori nello scegliere un capo?
«Dalla nostra storia. Per lunga parte dell’evoluzione umana il criterio fondamentale per valutare il lavoro di qualcuno era fisico: serviva chi aveva la forza necessaria per costruire strade, azionare macchinari, sollevare carichi. Negli ultimi 200 anni i parametri sono diventati intellettuali e basati sull’educazione universitaria: così gli uomini, che spesso erano i soli laureati, erano considerati più adatti al ruolo. Da 50 anni a questa parte è ancora più difficile giudicare il talento, composto di tanti aspetti, anche psicologici, non facili da decifrare e da ricostruire. Ma le persone sono rimaste intellettualmente pigre e amano le scorciatoie: nel giudicare gli altri tendiamo a semplificare e basarci su valutazioni superficiali, magari frutto di pregiudizi secolari. È come quando vediamo in tv i candidati alle elezioni: ci facciamo influenzare da elementi secondari perché è più facile che studiare i programmi di ognuno».
Lei sostiene che uno degli errori più comuni sia quello di scambiare la confidence, la fiducia in sé, per competence, la competenza. Ci spiega la differenza?
«Per natura e per educazione, anche nelle società più paritarie, gli uomini hanno una maggiore fiducia in sé rispetto alle donne. Essere convinti di saper fare una cosa non equivale a saperla fare davvero, ma spesso viene erroneamente dato per scontato che lo sia. Di qui la preferenza accordata ai maschi in fase di selezione dei leader di ogni organizzazione, dalle aziende private ai governi».
Distingue anche il narcisismo dal carisma
«Il narcisismo è l’estrema concentrazione sul proprio interesse, l’indifferenza agli altri, la convinzione di essere al di sopra delle regole: un elemento che, come dimostrato da studi internazionali, nelle giovani generazioni è addirittura più presente che nelle precedenti. Il carisma è un amplificatore di qualità, ed è il contrario del narcisismo: consiste nella capacità di condividere una visione, motivare i dipendenti, riconoscerne i risultati e coltivarne il potenziale. Tutti elementi che nei sondaggi sono riconosciuti più alle leader femminili che agli uomini. Eppure alle donne viene suggerito, per emergere, di diventare più narcisiste. I consigli per farsi avanti, lean in come diceva Sheryl Sandberg di Facebook, cercano di favorire tale approccio egoriferito. Ma questo egoismo non fa di una persona un buon leader, al massimo la rende un influencer alla Kim Kardashian».
Ma se il sistema premia chi è arrogante e vanesio, io donna non farei bene ad adeguarmi?
«Purtroppo, sì: finché il mondo del lavoro è tarato in questo modo, per emergere devi ossessivamente promuovere te stessa. D’altro canto se, indipendentemente dal genere, abbiamo un capo incompetente, dobbiamo sapere che sottolineare le sue mancanze potrebbe non “pagare”: in teoria i vertici dovrebbero esserci grati, in pratica non lo sono perché abbiamo evidenziato che hanno scelto la persona sbagliata».
Non se ne esce, quindi?
«Se guardiamo al lungo termine, all’interesse generale di una società o di un sistema economico, è chiaro che occorre cambiare i criteri di selezione premiando chi mostra competenza ed empatia. Un buon leader comunica meglio la propria visione del business, approccia il problem solving con creatività, è oggettivo e leale nel processo di valutazione dei dipendenti, è orientato al cambiamento».
Oltre a competenza ed empatia, qual è il requisito di un leader?
«Il leader giusto di solito è chi non vuole esserlo. Se penso alla politica, mi viene in mente Angela Merkel: una che la mattina si prepara da sola la colazione e studia i dossier, e la sera ascolta musica con il marito. Certo, un film sulla sua vita non sbancherebbe il box office. Però il leader giusto è in genere quello che appare “noioso”, non quello sicuro di sé e determinato ma in compenso senza scrupoli. Anche perché, se qualcuno è così impegnato a promuoversi, probabilmente non sta facendo bene il suo lavoro».
Come si selezionano i leader competenti?
«Smettendo di credere all’istinto, affidandosi ad analisi quantitative e qualitative sui loro risultati precedenti, ricorrendo a colloqui “ciechi” (cioè senza sapere il sesso del candidato, ndr) per valutarne competenze, capacità di imparare, umiltà e curiosità. L’obiettivo è avere i migliori leader a prescindere dal genere».
La morale, dunque, qual è?
«La diversità, nelle aziende come nei governi, si promuove concentrandosi sul talento delle persone piuttosto che sul loro genere o sulla loro età. Non è vero che le donne siano migliori a priori, ma è vero che emergono più spesso nelle società e nelle situazioni in cui vengono messe in condizione di farlo: quelle in cui il merito conta più del sesso, che quindi, automaticamente, non è più un ostacolo. Faccio un esempio: chi ha reagito meglio contro l’emergenza Covid? I presidenti di Usa e Brasile, Trump e Bolsonaro, o le premier di Germania e Finlandia, Merkel e Marin? Le seconde. Ma, attenzione, non in quanto “genericamente” superiori; bensì perché nei loro Paesi la meritocrazia esiste e dunque al comando sono arrivate le persone migliori. Casualmente, 2 donne».