Le immagini di madri e bambini in fuga dall’Ucraina hanno fatto il giro del mondo nelle ultime ore, ma a qualcuno non sarà sfuggito un dettaglio, che poi dettaglio non è: nella guerra tra Mosca e Kiev sul campo ci sono anche donne e sono persino di più di quelle russe. È accaduto dal 2014, dopo il precedente conflitto in Crimea, che ha portato ad aumentare il numero di soldatesse al 15,6% dell’esercito regolare ucraino, contro il 10-12% di quello russo. Tanto per fare un paragone, in Italia si arriva a circa il 7%, nel Regno Unito all’11%.
È anche l’effetto della leva obbligatoria, anche femminile, che poi porta parte delle reclute a fermarsi nelle forze armate e scegliere di indossare una divisa per sempre. E in Italia? Da noi la lega obbligatoria non esiste più ormai dal 2005 e oggi in molti si interrogano su cosa potrebbe succedere nel caso (remoto) che il nostro Paese sia coinvolto in un conflitto. Eppure nel corso degli ultimi 3 anni ci sono stati tanti tentativi di reintrodurre la “naja”. Che fine hanno fatto?
La “naja” sospesa
«Il servizio di leva in realtà non è mai stato abolito, ma solo sospeso con una decisione del Parlamento» precisa il generale Marco Bertolini, già comandante del Comando Operativo di Vertice Interforze (in precedenza del Comando Interforze per le Operazioni delle Forze Speciali, della Brigata Paracadutisti Folgore e del 9° reggimento incursori Col Moschin). Bertolini, che oggi è Presidente dell’Associazione Nazionale Paracadutisti d’Italia, ha ricoperto numerosi incarichi in molti teatri operativi tra i quali Libano, Somalia, Balcani e Afghanistan, e ora racconta: «All’epoca si decise in modo unanime seppure per motivi diversi: la sinistra è tradizionalmente antimilitarista, ma anche la destra più conservatrice pensò che avere solo militari professionisti, di carriera, fosse la scelta migliore. Negli ultimi anni, invece, c’è stato qualche ripensamento, per diversi motivi: continue riduzioni d’organico, ma anche la volontà di offrire uno strumento in più ai giovani, che insegnasse il senso civico e di dovere che secondo qualcuno si è perso» spiega Bertolini.
Le proposte per reintrodurre la leva (estendendola alle donne)
Il primo tentativo di ripristinare il servizio militare obbligatorio risale al 2018, con una proposta di legge alla Camera, presentata da due deputate di Fratelli d’Italia, ma poi andata nel dimenticatoio. La novità, però, era rappresentata dall’idea di estendere la leva anche alle ragazze: «Su questo non vedo nulla di strano: dal 2000 le Forze Armate sono aperte anche al personale femminile. Le donne hanno ottime qualità, specie per alcuni incarichi: quando ero a Kabul come Capo di Stato maggiore nell’ambito della missione Isaf, ad esempio, il mio braccio destro era una ufficiale donna canadese. Non nascondo, però, di avere qualche riserva in più quando si tratta di altre mansioni, più “fisiche” o per altri versi delicate, come per certi impieghi di fanti, bersaglieri o alpini. Lo stesso contingente canadese in Afghanistan, infatti, non dispiegava personale femminile in alcune aree» aggiunge il generale.
La “mini naja” come servizio civile
Sta di fatto che nel 2019 l’allora ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ci ha riprovato proponendo, proprio in occasione della festa degli Alpini, di ripristinare il servizio militare obbligatorio per tutti. Stavolta, però, non più pensando a 12 mesi, bensì a un periodo più breve paragonabile a una forma di servizio civile, non solo nelle caserme, ma anche nei pronto soccorso o nelle operazioni di pronto intervento: «Sicuramente oggi siamo gravemente sotto organico: quando la leva è stata sospesa l’Esercito poteva contare su 300mila uomini, oggi ne ha appena 100mila, ma si scenderà fino a 90mila: un numero troppo esiguo per le esigenze del Paese, considerando che i militari sono impiegati – uomini e donne – anche in caso di calamità naturali, con compiti di protezione civile di polizia. Ecco, in questo caso la leva sarebbe utile, perché si potrebbero impiegare molti giovani in operazioni come Strade Sicure. Si potrebbe anche contare su una presenza maggiore su tutto il territorio, mentre adesso è limitata a poche aree. In passato, se siamo riusciti a intervenire per tempo in disastri come quello del Vajont o del terremoto del Friuli, è stato grazie al fatto che potevamo contare su più personale: basti pensare che con due cucine da campo potevamo offrire pasti a 500/1.000 persone» sottolinea Bertolini. Oggi buona parte di quelle capacità è ridimensionata.
Il militare al posto del reddito di cittadinanza
Tra i sostenitori del ritorno del servizio militare obbligatorio, in molti ne sottolineano il valore “educativo”. Tra questi, di recente, c’è stato Gianni Lepre, opinionista economico del Tg2 e notista dell’Agenzia di Stampa nazionale ItalPress: «Dopo tante polemiche inutili su riforma del mercato del lavoro e reddito di Cittadinanza, si torna a parlare di obbligo di leva, nel momento, a mio avviso più propizio» aveva detto lo scorso settembre, spiegando che però dovrebbe prevedere un’indennità economica «adeguata al reddito di cittadinanza. L’importante è rieducare i giovani al lavoro e al sacrificio, l’Italia non ha bisogno di baby pensionati». La proposta, però, era già stata scartata dall’ex ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, che l’aveva definita «un’idea romantica ma inapplicabile, visto che le dinamiche sono cambiate e oggi il Paese vanta dei professionisti tra le Forze armate». Sicuramente anche il fattore economico ha contribuito a far tramontare l’ipotesi.
Perché oggi è difficile tornare alla leva
«I motivi sono tanti: bisognerebbe ripristinare tutta una macchina organizzativa, a partire dai distretti militari e consigli di leva che non esistono più e che servivano per contattare e convocare i giovani, per poi sottoporli alle visite mediche e ripartirli ai vari reparti – spiega Bertolini – Poi avremmo problemi logistici perché non sapremmo dove collocarli: molte caserme sono dismesse o necessitano di interventi di manutenzione per i quali mancano gli stanziamenti, così come il personale per eseguire i lavori». A questi costi, poi, si sommerebbe quello di uno stipendio che, seppure esiguo, lo Stato dovrebbe pagare a migliaia di giovani per un periodo piò o meno lungo.
Esiste poi un limite anche alla cosiddetta “mini naja”: «Fare un addestramento di una o due settimane non servirebbe a nulla, forse solo a far divertire ragazzi e ragazze a sparare con un fucile o arrampicarsi. Occorrerebbe qualche mese, almeno sei. Il servizio militare serviva, all’epoca, perché da un lato stimolava il senso del dovere, dall’altro livellava le classi sociali perché tutti condividevano tutto, alla pari, anche i lavori più umili» conclude Bertolini. Un’idea romantica, appunto, secondo l’ex ministro Trenta, ma che per le donne ucraine di romantico oggi ha ben poco.