Non si scrive mai per se stessi, sempre per gli altri, per essere letti. È una verità che non sempre si ammette. Avevo lavorato al mio romanzo per poco più di due anni, anni di ore rubate alla famiglia, alla casa, alla forma fisica; anni di ore sofferte, lottando contro il sonno, contro l’impulso di sistemare la casa, contro mille tentazioni e obblighi. Non era stato un “parto” facile: mi ero calata nei panni di una donna che aveva un passato doloroso. La mia protagonista, Giulia, doveva affrontare un percorso per affrontare i propri demoni interiori e io ero stata sempre al suo fianco. Era una storia a cui tenevo, a cui tengo, particolarmente.
“Da qualche parte starò fermo ad aspettare te” è uscito in libreria l’11 febbraio, alle prime avvisaglie del Coronavirus. Non c’era paura allora, né distanziamento sociale. L’epidemia era accaduta in Cina, non si sarebbe ripetuta da noi con la stessa gravità, è solo un’influenza, ci dicevamo con un sorriso di leggerezza.
Avevo già più di venti presentazioni programmate, lanci sulla stampa, amici-lettori che mi sostenevano. Un buon abbrivio insomma. Ero fiduciosa. Non che questo libro mi cambiasse la vita, che mi consentisse di vivere di scrittura, come sognano in tanti. Lavorando in ambito editoriale so che è molto difficile, se non quasi impossibile. Ma che la mia opera arrivasse a un discreto numero di persone, sì, ne ero abbastanza fiduciosa.
Ero finanche preoccupata, allora, di dover tenere in piedi la promozione con la mia già caotica vita di mamma lavoratrice, docente di scrittura creativa, arbitro di pallavolo, tassista dei figli… i cappelli sono tanti, come per tante altre mamme che fanno le equilibriste tra casa, famiglia, lavoro e passioni. Ce la farò, mi dicevo, a passare i weekend in giro per l’Italia e a seguire comunque i ragazzi nelle loro scalmane adolescenziali? Non potevo immaginare, come tanti, quello che sarebbe successo. Il covid-19 è calato su tutto come un sipario.
Stare a un metro di distanza, chiudiamo i confini tra le regioni, restate a casa, lockdown. Un’escalation nel giro di pochi giorni. La mia piccola tournée per la Penisola si è sfilata dalle mie mani come le perle di una collana rotta. I primi tempi ho stretto i denti e sono andata avanti. Articoli, social, programmi per il futuro. Usciremo presto da tutto questo, ci dicevamo, andràtuttobene, milanononsiferma e così via. Ho imparato a usare tutti i tipi di programmi per videoconferenze: Meet, Zoom, Skype, Streamyard, Socrate, Belive… E via con video, letture, libri consigliati, il rossetto e una bella camicia sopra, sotto le braghe del pigiama, sorrisi virtuali e la velocità a fare da padrona: una giostra per tener viva l’attenzione. Mi girava un po’ la testa ma cercavo di starci sopra, di cavalcarla.
Poi sono arrivati i giorni più duri, la curva che non accennava a scendere, i morti di Bergamo. In televisione e sui social trovavi solo testimonianze drammatiche, o tesi complottistiche.
Alcuni autori avevano smesso di parlare dei propri libri “per rispetto”. Io non sapevo che fare. Mollare tutto, abbandonare il mio piccolo romanzo, o continuare? Era davvero irrispettoso seguitare a promuoverlo? E poi, sarebbe stato utile?
Non ne ero certa, era un momento in cui si faceva fatica a essere certi di qualunque cosa, ma mi sembrava sbagliato voltare la faccia a un piccolo sogno che avevo coltivato così a lungo e con così tanta fatica. Lo dovevo a chi avevo rubato tempo e attenzione per scrivere, lo dovevo a me e a ciò che vi avevo investito, lo dovevo alla casa editrice, al mio agente, lo dovevo al libro che in quei primi giorni di vita aveva ricevuto i primi consensi, le prime recensioni. Così ho continuato, con moderazione. Ho mantenuto la pagina autrice di Facebook aggiornata con uno o due post al giorno a tema neutro, sul libro o sulla scrittura, cercando di non farmi influenzare dall’umore ballerino, dalla solitudine, dall’ossessione dei dati, da quel bollettino di morti e contagiati che calava implacabile tutti i pomeriggi. Ho alimentato con feed quotidiani la pagina Instagram, sforzandomi di non essere mai sfacciata, di avere una coerenza.
E quando finalmente abbiamo superato il picco, quando si è cominciato a parlare di qualche concessione, ho provato a spingere di più. Ho contattato persone, ho rilasciato interviste a blog, sono andata a trovare i librai della mia città, mi sono fatta sentire come potevo.
Non è stato (non è) abbastanza. Le librerie hanno chiuso per più di un mese e mezzo e non tutte hanno ancora riaperto. Qualche libraio ha restituito il mio libro per avere meno costi (in blocco, assieme a tante altre rese); altri l’hanno finito e non lo hanno riordinato perché comunque rappresenta un rischio e un costo e in questo momento bisogna limitarli entrambi al massimo, per sopravvivere.
È vero che durante il lockdown c’erano gli store online che consegnavano a domicilio, ma spesso la gente aveva paura anche dei fattorini o, se acquistava, privilegiava la sicurezza dei classici o dei best-seller. È vero che le vendite degli ebook sono triplicate, in quel periodo. Ma i loro dati non compensano il vuoto.
Questa quarantena non è stata una sospensione, non è stato come mettere in pausa una canzone o la serie preferita. È stato un buco nero, un tornado che ha ingoiato cose che non restituirà, se non masticate o rotte. Ha ingoiato la nostra tranquillità, economica ma anche e soprattutto sociale: la fiducia negli altri, la nostra tanto decantata “solarità” di italiani. Ha ingoiato i nostri anziani, il nostro tempo, i nostri soldi e un po’ di sogni. Compreso il mio.
Ora il futuro è tutto da ricostruire, anche per il mio libro. Le presentazioni sono considerate “assembramenti” e chissà quando saranno di nuovo consentite e quando le persone se la sentiranno di ritrovarsi ancora in un ambiente chiuso. Continuano gli eventi online in video, brevi e spesso con un contatto umano che si limita alla possibilità di inviare dei commenti in diretta. Cuoricini virtuali, messaggi che arrivano tardi, asincroni.
Tutto serve, mi dico. I veri motori sono i lettori, se il romanzo prende piede, se incontra il favore del passaparola (parola magica per tutti i libri) allora non tutto è perduto. Un amico qualche giorno fa, per tirarmi su di morale, mi ha detto che le storie, quelle buone, trovano sempre una loro strada. Quindi continuo, a volte con energia e divertimento, a volte con un po’ di frustrazione e sì, anche di rabbia. Ma continuo.