C’è un sentimento nuovo in questa seconda ondata della pandemia, che non avevamo sperimentato nella prima. È la rabbia. Due tipi di rabbia: quella che scende in piazza e urla, com’è successo a Napoli. E quella virtuale, che viaggia sui social network.
La prima è disorganizzata, è la voce delle diverse povertà giunte allo stremo, ciascuna a causa di una vulnerabilità differente. Sono povertà che prima erano economie di sussistenza, ai margini della legalità, e che in quanto tali non verranno raggiunte dalle misure di compensazione promesse dal governo. Potranno sperare nella solidarietà, se non si fosse sfilacciata anch’essa negli ultimi otto mesi. La seconda rabbia, invece, nasce dal fatto che, al posto di una chiusura generalizzata, stavolta qualcuno si è arrogato il diritto di decidere cosa è superfluo nella nostra vita e cosa no. E, tra il “superfluo”, stabilire dei distinguo. Alcuni provvedimenti del nuovo decreto sembrano senza senso. La mancanza di senso riguarda, per esempio, la chiusura di cinema e teatri, oggettivamente di difficile comprensione. Ma altrettanto difficile da comprendere è lo sdegno particolarmente concentrato su queste due chiusure. Se tutti quelli che si indignano per i cinema e i teatri chiusi, negli ultimi mesi li avessero frequentati, forse il loro fermo oggi suonerebbe più coerente. Più probabilmente, coltivano l’ingenua utopia che, lasciando aperti solo quei luoghi dopo le 18, la gente li frequenterebbe di più, sollevando le sorti del settore. Ma è una beata illusione: cinema e teatri sono in crisi da ben prima della pandemia e di sicuro non patiscono la concorrenza dei ristoranti, ma del divano e delle piattaforme di streaming. Lo so, è più nobile lamentarsi per i cinema e i teatri che per le palestre, considerate luoghi di culto del corpo, dove gli uomini scolpiscono bicipiti al posto del cervello e le donne inseguono la chimera di curve effetto photoshop. Ma se andiamo a guardare da vicino, scopriamo che i teatri sono frequentati da un ceto sociale capace di trovare valide alternative per continuare a nutrire la propria anima tra le quattro mura di casa, mentre le palestre spesso tirano fuori i ragazzi dalla strada, permettono a molti di loro di esprimersi come a scuola non riescono, si prendono cura del benessere psicofisico di uomini e donne.
No, non cadrò anche io nell’assurdo gioco dei distinguo. Quello che mi preme dire è che non ci sono vittime di serie A o di serie B in questa gestione della seconda ondata di pandemia. E l’ultima cosa che dobbiamo fare è stabilire nuove gerarchie di valore. Alla gente che è scesa in strada a Napoli possiamo idealmente aggiungere gli operatori culturali e sportivi, gli adolescenti che da lunedì scorso sono tornati a seguire le lezioni davanti a un computer, i ristoratori, i commercianti. Chi, dalla sicurezza di un posto fisso o di una scrivania in smartworking, esprime virtualmente la propria rabbia sul non-superfluo di cui è stato privato, forse può spendere le sue energie ragionando su come aiutare concretamente tutti loro. Su come ridare un senso concreto alla parola solidarietà.