«Desideravo tanto rientrare in ufficio e buttarmi alle spalle il ricordo di quelle settimane terribili, quando ho perso entrambi i miei genitori nel giro di 15 giorni. Lo volevo più di ogni altra cosa, era il mio modo di voltare pagina. Ma da quando sono tornati i sintomi le mie giornate si sono trasformate in un incubo. Anche il solo prepararmi per uscire al mattino mi sembra un’impresa impossibile, un pensiero che mi atterrisce dal momento in cui apro gli occhi».
Il buco nero in cui è precipitata Valentina – nome di fantasia, storia vera, poco più di 40 anni e un impiego nell’ufficio acquisti in una piccola impresa del Nord Est – si chiama Long Covid. Il contagio risale a più di un anno fa e, nonostante nel suo corpo da mesi non ci sia più traccia del virus, ancora oggi lei convive con le vertigini, il mal di testa, la difficoltà a concentrarsi e le giornate in cui fatica anche solo a stare in piedi. Ma per l’azienda la sua malattia non esiste. È per questo che ha scritto a Donna Moderna, e noi abbiamo deciso di raccontare la sua storia.
«L’anno scorso, dopo il contagio, ho preso sei settimane di malattia, per una polmonite bilaterale che mi ha devastato» spiega con la voce rotta dall’emozione. «Alla fine di aprile sono rientrata al lavoro ma dopo un mese è arrivato il primo di tanti tracolli fisici e il medico aziendale mi ha visitato. Non so che cosa abbia detto al datore di lavoro, ma a quel punto mi è stato permesso di stare in smart working».
Sembrava tutto a posto, Valentina poteva lavorare senza affrontare lo stress degli spostamenti e prendendosi dei momenti di pausa quando le energie le venivano a mancare. Ad agosto, però, le è stato chiesto di tornare in presenza. Lei stava male, ma ci ha provato ugualmente, e in ottobre è arrivato il secondo crollo. «Da lì è stato tutto un ping pong tra assenze e rientri. Ancora oggi i sintomi non passano, in ufficio dicono che sono “solo” depressa e io non ci dormo più, ho il terrore di peggiorare, di combinare qualche guaio sul lavoro. È da gennaio che mi barcameno tra sindacati e medici aziendali ma non ho risolto nulla».
Che cosè il Long Covid
L’Organizzazione mondiale della sanità ha già riconosciuto il Long Covid e calcola che questa sindrome colpisca un ex positivo al coronavirus su 10: a febbraio ha stilato un documento in cui chiede alla politica di fare di più. Ma per l’Italia e molti altri Stati non c’è ancora nessuna patologia che risponda a questo nome.
«Se non hanno malattie diagnosticabili, come un’insufficienza polmonare, per questi lavoratori è difficile persino ottenere un certificato per stare a casa, perché l’Inps non copre i giorni di malattia» spiega Sebastiano Calleri, responsabile nazionale Cgil Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. «La “nebbia mentale”, la stanchezza o i dolori muscolari come li giustifichi? L’unica via d’uscita è chiedere al medico curante di scrivere sul certificato un’altra cosa. E non tutti sono disposti a prendersi questa responsabilità». «Il mio ha capito la situazione» conferma Valentina «ma quando gli dico che sto male, deve inserire diciture generiche come la parola “influenza”».
Quando ha avuto il Covid lei si è curata a casa, ma anche chi viene ricoverato non sembra più tutelato. È vero che prima di rientrare in ufficio deve passare obbligatoriamente dalla visita in azienda. «Ma il compito del medico del lavoro è quello di accertare che le condizioni di salute siano idonee allo svolgimento della mansione» spiega Alessandra Vivaldi, vicepresidente dell’Associazione nazionale medici di azienda (Anma). In pratica può segnalare che un magazzino polveroso non è adatto a un malato d’asma ma non può prescrivere dei giorni di malattia.
Lo smart working può essere suggerito solo a chi è considerato “fragile” nei confronti del virus e quindi più a rischio di contagio. Ma i sintomi del Long Covid difficilmente portano a una valutazione di questo tipo, a meno che non ci siano organi gravemente compromessi. Nei fatti, poi, nelle piccole imprese manifatturiere, la maggior parte di quelle italiane, il lavoro agile viene poco applicato. «E non solo perché certe mansioni non si possono svolgere da casa, ma anche per un tema di mentalità. È ancora molto radicata la convinzione che chi sta a casa non faccia nulla» aggiunge il sindacalista.
Cosa si dovrebbe fare per tutelare malati come lei?
Nel frattempo Valentina consuma permessi, giorni di ferie e di malattia, con la consapevolezza che sta velocemente bruciando tutti quelli a sua disposizione e quando il blocco dei licenziamenti finirà potrebbe essere mandata via.
Ma cosa si dovrebbe fare per tutelare malati come lei? «Il primo passo è stilare linee guida nazionali per definire cosa è il Long Covid e come si identifica con mezzi certi e misurabili. Poi va riconosciuto come patologia, in modo che i giorni di malattia vengano coperti dall’Inps» risponde Sebastiano Calleri. «Ma questo risolve solo una parte del problema. La verità è che non sappiamo ancora se e quando si guarisce da questo tipo di sindrome. E in un momento di crisi come questo il problema delle lunghe malattie e del rischio di licenziamento è complesso: bisognerebbe intervenire sui contratti nazionali delle diverse categorie di lavoratori, chiedere tutele più prolungate per queste persone ma le aziende sono in grossa difficoltà e difficilmente accetterebbero compromessi».
Ma forse, dice Valentina, la strada che porta ad avere più garanzie e diritti passa anche da una maggiore sensibilità degli “altri”, i sani. «L’impressione è che sui malati di Covid ci sia un marchio. All’inizio ci trattavano come appestati, adesso non veniamo creduti. Ho un’immagine stampata nella mia testa: è successo la prima volta che ho avuto la febbre dopo la malattia, quando mi hanno concesso lo smart working. Ricordo la mia collega che ha preso la mia roba in ufficio mentre aspettavo fuori. Avevo 3 tamponi negativi ma erano tutti spaventati: non mi hanno neanche fatto entrare nella stanza. Io ho preso il Covid in ospedale, per curare mio padre. Nessuno mi ripagherà mai di questo, ma sì, un po’ di comprensione mi scalderebbe il cuore».
Long Covid: se ne parla su Facebook
A soffrire di Long Covid sono in tanti, anche persone fino a ieri in perfetta salute. Una volta eliminato il virus dall’organismo continuano ad accusare sempre gli stessi sintomi, apparentemente inspiegabili: fatica, acufeni, dolori muscolari e poi quel fiato corto che non passa mai. Bastano due passi con le borse della spesa, un solo piano a piedi, ed eccoli lì a lottare con la fame d’aria, anche se la Tac ai polmoni dice che è tutto ok.
«Tra noi ci sono persone giovanissime» racconta Morena Colombi, che ha fondato Noi che il Covid lo abbiamo sconfitto. Sindrome Post Covid #LongCovid, un gruppo Facebook che conta già più di 16.000 iscritti, uniti dal bisogno di sfogarsi e confrontarsi. «La nostra è una condizione insolita e terribile. Il rendimento sul lavoro non è più quello di prima, siamo costretti a chiedere giornate su giornate di malattia. Io ne ho già consumate 198 in un anno, il mio contratto dice che ne posso fare al massimo 300 in 3 anni, poi sarò licenziabile».
L’esenzione per il follow up post Covid: un primo, timido aiuto
Lombardia, Emilia-Romagna, Marche, Puglia e altre Regioni hanno messo a punto un’esenzione per il follow up post Covid. Chi continua ad avere i sintomi dopo il tampone negativo ha diritto alle visite di controllo e ad alcuni esami senza pagare il ticket. Per informazioni ci si può rivolgere al proprio medico di famiglia.