Per curare il mal di schiena è spesso necessario ricorrere alla chirurgia. Negli ultimi anni nel nostro paese si sono moltiplicati gli interventi di artrodesi. Di cosa si tratta? È un’operazione che consente di fissare tra di loro due o più vertebre della colonna vertebrale con viti e placche e ridurre l’infiammazione. Una tecnica rimborsata dal Sistema sanitario nazionale. Negli ultimi anni si è registrato un boom di interventi.
Dal 2016 al 2018, ad esempio, svela il ministero della Salute, le operazioni sono cresciute dell’8,7% negli ospedali pubblici e del 21,2% in quelli privati. A tal punto che la Lombardia, prima Regione in Italia, ora ha deciso di ridurre gli indennizzi. Obiettivo: scoraggiare l’esecuzione di interventi non del tutto necessari. Va detto, in ogni caso, che la regione ospita diversi centri di eccellenza, meta di pazienti provenienti da tutta Italia, giunti qui per sottoporsi a revisione di precedenti operazioni non riuscite o per grandi deformità.
Artrodesi: cos’è e quando è necessaria
Il mal di schiena è un problema comune, che riguarda anche molte donne. Tra i quaranta e i cinquant’anni d’età la metà degli italiani può raccontare di averne sofferto almeno una volta in modo grave. Può essere causato da una postura scorretta, da un’eccessiva magrezza o dal sovrappeso, dalla gravidanza, da un carico sollevato male e da mille altre cause. Ma quando è necessario operarsi?
«L’operazione di artrodesi è indicata soprattutto per problemi di tipo degenerativo. Ad esempio per un’artrosi che colpisce dischi e articolazioni della colonna vertebrale. Oppure per fratture. O ancora per deformità, come scoliosi e cifosi, che portano deviazioni gravi e permanenti, sempre della colonna» ci spiega il dottor Roberto Bassani, responsabile del reparto di chirurgia vertebrale 2 dell’IRCCS Istituto ortopedico Galeazzi di Milano (centro di eccellenza europea per la chirurgia vertebrale) nonché rappresentante regionale della Società italiana di chirurgia vertebrale. «Viene effettuato così: si fissano due o più vertebre tra di loro attraverso l’inserimento di protesi in titanio (viti, barre per esempio). Questi sistemi aiutano la formazione di un ponte osseo naturale che riduce i movimenti anomali quindi l’infiammazione ed il dolore che ne deriva alla schiena o alle gambe».
L’importanza di una corretta indicazione medica
«Si ricorre a questa tecnica quando serve correggere queste anomalie in modo definitivo. Da sessant’anni è in tutto il mondo lo standard chirurgico ideale per migliorare la qualità della vita di chi ha mal di schiena cronico, fratture o deformità. Si tratta di un intervento delicato, che presenta un margine di rischio come in tutta la chirurgia più complessa, ma non va demonizzato. In ogni caso è opportuno che sia eseguito in centri di riferimento» prosegue Bassani. «È necessario lavorare sull’appropriatezza degli interventi, dalla quale non si può mai prescindere. Soprattutto, è importante che il medico fornisca un’indicazione corretta al paziente sulla necessità di operarsi. Fatta eccezione per i deficit neurologici, deve rimanere l’ultima chance per chi soffre di questi disturbi. Soprattutto se siamo di fronte a pazienti non in pericolo di vita. Se eseguita con la giusta indicazione e correttamente, l’artrodesi può contribuire a migliorare la qualità di vita di chi vi è stato sottoposto».
Sala operatoria: quando è inevitabile
Operarsi dovrebbe essere dunque solo l’ultima possibilità quando si sono tentate tutte le altre strade. «Si ricorre all’artrodesi quando il paziente non ha più una qualità di vita accettabile. Il dolore è onnipresente, supera la soglia di sopportazione. È difficile muoversi. Si deve sempre assumere farmaci, spesso oppiacei. E ciò incide sulla qualità della vita» gli fa eco Stefano Romoli, responsabile di chirurgia della colonna vertebrale dell’Azienda ospedaliero – Universitaria Careggi di Firenze. «Purtroppo i risultati sono soddisfacenti solo nel 70-80% dei casi. Questo va considerato bene prima di decidere per l’operazione. Inoltre si tratta di interventi non privi di rischio. In caso di artrodesi, la percentuale di complicanze media va dal 6% per la chirurgia più piccola e dal 30 al 50% per la più grande. Infezioni, ematomi, errori tecnici, sono ormai rari, ma una mancata capacità di adattamento del rachide e dell’organismo va preventivata». Secondo le statistiche, la possibilità che un secondo intervento si renda necessario entro dieci anni dal primo è stimata nel 30%.
Prevenire è meglio: sport e terapie alternative
Prima della sala operatoria ci sono dunque tutta una serie di vie da tentare per risolvere il mal di schiena. Ad esempio: curare il sovrappeso facendo sport. Oppure, lavorare sullo stile di vita. «Se ciò non basta si può seguire un’adeguata terapia farmacologica e del dolore sempre in strutture di riferimento. O ancora terapie percutanee, come infiltrazioni. Poi ci sono terapie fisiche locali riabilitative realizzate con la collaborazione di fisiatri, fisioterapisti e psicologi. La maggior parte dei pazienti con mal di schiena cronico tende infatti a soffrire di ansia e depressione e ad assentarsi dal lavoro” prosegue Bassani. «Se tutti questi tentativi falliscono, la qualità della vita è molto diminuita e si ha molto male, in quel caso si deve essere operati».
Le tecniche mininvasive
Infine, se proprio non se ne può fare a meno, l’artrodesi si può realizzare anche tramite delle tecniche mininvasive. «Si praticano delle incisioni molto più piccole, di pochi centimetri, seguendo corridoi naturali per arrivare alla colonna vertebrale, non per forza attraverso la schiena ma anche dal fianco (XLIF) o dalla pancia ( ALIF). Laddove possibile si utilizza una strumentazione percutanea: in questo modo si evita di intaccare i muscoli, con tempi di recupero molto più brevi» chiarisce Stefano Romoli. Un tipo di intervento che, tuttavia, non è indicato per tutte le patologie.