Oltre 1 donna su 3 che si rivolge a un ambulatorio ginecologico soffre di disagio psicologico e sociale. Si tratta di problemi che spesso si aggiungono a una malattia, sia di natura ginecologica/oncologica, che cronica, che porta una donna a modificare la propria vita e le relazioni. Ma non solo: spesso questa condizione la rende anche più vulnerabile e a rischio di violenza, soprattutto se si trova in condizioni di povertà. A dirlo sono i dati di una ricerca, promossa dalle ACLI (Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani) di Roma, insieme al Policlinico Universitario Gemelli IRCSS.
La malattia cambia la vita e le relazioni
La ricerca, condotta su un campione di oltre 400 donne di età media 43 anni, ha preso in esame pazienti che nel 19% dei casi si erano recate presso gli ambulatori per un controllo. Il 45% aveva una patologia ginecologica benigna e il 36% per una patologia di tipo oncologico. È emerso che nel 50% dei casi la malattia aveva cambiato la loro vita, sia nel modo in cui si percepivano, sia nelle relazioni con gli altri. Ad esempio, per oltre 7 su 10 aveva portato a cambiare le proprie priorità. Nel 27,4% dei casi, invece, aveva causato insoddisfazione per il proprio corpo, ma anche la sensazione di non essere compresi e vicini (40,4% e 23,4%), la perdita delle certezze e l’inadeguatezza all’attuale condizione di vita (20,9% e 20,4%).
Le discriminazioni al lavoro a causa della malattia
Se già affrontare una malattia è di per sé molto difficile, le condizioni sociali possono aggravare la situazione. Non a caso il disagio psicologico e sociale colpisce il 37% (oltre una su tre) delle donne che si rivolgono a un ambulatorio di ginecologia. Il motivo è legato soprattutto al lavoro. «Mentre il livello di soddisfazione nell’ambito familiare e sociale è risultato medio alto (3-4 su una scala da 1 a 5), andando più in profondità è emerso che nel 70% dei casi le donne che hanno partecipato a questa indagine hanno dichiarato una discriminazione di genere principalmente nell’ambito lavorativo (76.2%)», spiega l’ingegnera Tina Pasciuto, ricercatrice presso l’Università Cattolica-Policlinico Gemelli. Tra i segnali di disagio anche l’assenza di empatia.
C’è un nesso tra malattia e violenza
Il fatto di avere una patologia, infatti, rende più fragili emotivamente tanto che 1 donna 3 tra quelle intervistate ha riferito di aver subito una qualche forma di violenza, fisica (22,1%), psicologica (55,1%) o verbale (42,6%) e sessuale (8,1%). «Non sappiamo se la violenza dichiarata dalle donne sia stata antecedente o successiva alla malattia, ma sicuramente la malattia ha reso le donne più sole (23.4%), insoddisfatte del proprio corpo (27,4%), smarrite nelle proprie certezze (20,9)», sottolinea la Professoressa Antonia Carla Testa, Associata di Ginecologia e Ostetricia presso l’Università Cattolica, campus di Roma. A colpire è anche che il 20% di chi vive accanto a una persona malata ha paura della malattia e addirittura il 3,5% che pensa ancora che il tumore sia contagioso.
Più sei povera, più sei a rischio violenza
Come se non bastasse si aggiunge la fragilità economica, che rende ancora più vulnerabili. «L’indagine ha evidenziato che tra tutti, la difficoltà economica aumenta il rischio sia di avere sia disagio psicologico e sociale (quasi 4 volte maggiore), più di 1,5 volte di subire violenza, di qualsiasi genere, nonché di soffrire di insicurezza alimentare (6 volte maggiore), ma ha anche messo in luce la stretta correlazione tra patologie ginecologiche, disagio psicologico e sociale e violenza, sottolineando l’importanza di fornire un sostegno psicologico e sociale alle donne affette da tali condizioni», spiega ancora Pasciuto.
La malattia e la povertà espongono alle violenze
Il 14% del campione vive in condizioni di insicurezza alimentare. Come spiegano gli autori dell’indagine, «non aver avuto i soldi per l’acquisto di cibo e/o di cibo nutrizionalmente bilanciato almeno una volta negli ultimi 12 mesi, è uno dei fattori di rischio principali per la violenza». «Questa ricerca, promossa delle ACLI di Roma, oltre al valore scientifico assume un forte valore sociale proprio per questo motivo. Dietro i numeri ci sono persone che sono state accolte dalle volontarie delle Acli con le loro fragilità e i loro bisogni e l’ascolto è un pilastro essenziale del welfare. I dati che emergono ci chiamano a una corresponsabilità collettiva», sottolinea Lidia Borzì, Presidente proprio delle ACLI di Roma.
Serve un “Welfare sartoriale”
Come spiega ancora Borzì, occorrono «misure di welfare sartoriali. I dati della ricerca dovrebbero tradursi in azioni concrete, in politiche efficaci che mettano davvero al centro le persone, promuovendo il benessere e la dignità di chi è in difficoltà. Nella nostra Istituzione stiamo passando alla fase 2 del progetto che prevede l’offerta di servizi integrali dedicati alle pazienti che, attraverso strumenti rispettosi quale un questionario, trovano la forza di manifestare le loro necessità. Gli ospedali potrebbero diventare luoghi di connessione con le altre realtà Istituzionali e sociali, assicurando un percorso di cura che coniughi l’aspetto di salute con quello sociale e relazionale».