Una smania irrefrenabile di libertà
Accendo il computer e attacco a leggere un lungo documento. «Mi sbucci una mela?». È la voce di mia figlia, Guia, 11 anni. Passano 10 minuti. «Dov’è la racchetta da tennis? ». Ah già, il tennis. La porto a lezione, rientro di corsa, mezz’ora di tregua ed è già ora di andare a riprenderla. «Infilati sotto la doccia, che lavoro ancora un po’». Dov’ero rimasta? Qualche riga più avanti: «Mammaaaaaa, mi porti l’accappatoio?». Tutti i giorni, a ogni ora, è così. Intanto suo padre è tranquillo in ufficio che lavora. E a me viene una smania irrefrenabile di libertà: «Ma chi diavolo me l’ha fatto fare? Giuro che me ne vado e mi rivedono tra un mese».
Come posso partorire certi pensieri terribili? Non lo so, ma sono in buona compagnia. Ripenso a Frida che nel romanzo distopico The school of good mothers, di cui si è parlato molto in America, viene rinchiusa in una rehab per madri scriteriate dopo aver abbandonato la figlioletta a casa da sola. O a Leda, la protagonista del film La figlia oscura: una docente universitaria di mezz’età che rivede in una mamma 30enne la tirannia inconsapevole a cui l’hanno sottoposta le figlie. È una ferita che si riapre perché Leda, alla fine, ha osato fare ciò che molte donne – me compresa – fantasticano solamente: andarsene.
Mamme ribelli sui social
Frida e Leda sono figure nate dalla fantasia narrativa, ma la realtà non si discosta poi tanto. Basta osservare i social media. Su tutti, il profilo Instagram Mammadimerda, un nome che non lascia spazio ai dubbi, o quello dell’attrice comica Brenda Lodigiani, mamma di una femmina di 4 anni e di un maschietto di 1, che nelle sue stories svela il chiaroscuro della maternità.
Domanda di una follower: «Come sopravvivere al terzo figlio in tre anni?». Nella clip colorata, tutta occhi dolci e cuoricini, Brenda ammicca: «È la cosa più bella del mondo…». Ma poi arriva la risposta in bianco e nero, occhi al cielo e occhiaie da notte insonne: «Ormai è tardi…». Ma come? Non era meraviglioso vedere la pancia che cresce? «A me non manca affatto» mi rivela Gloria, consulente finanziaria di 37 anni e due figli, Matilde, 5, e Leonardo, 1 e mezzo. Nei suoi post sfoggia una coda arruffata e leggins da tuffo sul divano, mentre con un calice di vino in una mano e il cucchiaio con la pappa nell’altra si rivolge all’ultimo arrivato: «La mangi o no?». Intanto la primogenita balla in mezzo a una sala-discarica di giochi. Roba da mal di testa. Che si aggiunge al mal di schiena da sollevamento di neonato in carne. «L’altro giorno il fisiatra mi ha chiesto: “Signora, fa un po’ di sport?”» racconta. «Ma se non riesco nemmeno a lavarmi i capelli! Mica posso pagare una baby sitter per andare in piscina. Se ho mezz’ora di tempo, mi porto avanti: faccio le lavatrici, preparo la cena, metto in ordine».
E i padri?
Anche il marito di Gloria lavora in banca, ma lui a casa non ci sta. «Figuriamoci se prende il congedo parentale: sta male nei confronti dell’azienda» mi dice. «Anch’io valgo come professionista, però la società non me lo riconosce: ai colloqui solo a me chiedono se sarò in grado di gestire i figli. E a parità di ruolo il mio stipendio è più basso del suo, per cui se ce ne sarà bisogno farò io un passo indietro».
Così Gloria contribuirà all’incremento delle statistiche dell’Ispettorato nazionale del lavoro, secondo cui nel 2020 ci sono state 42.000 dimissioni di genitori di bambini da 0 a 3 anni: di queste il 77% hanno riguardato delle donne. Il problema è che quando le responsabilità ci schiacciano, annullando ogni nostro progetto extragenitoriale, andiamo in crisi, ma poi teniamo duro fingendo che sia tutto ok. E scivoliamo nella dicotomia del tutto-o-niente: madre amorevole o madre senza cuore. Solo che, complice un certo nervosismo, passiamo dalla prima alla seconda alla velocità della luce. Come me l’altra sera, quando ho spedito mia figlia a letto tra i singhiozzi perché non era riuscita a consegnare un compito. «Arrangiati!» l’ho liquidata. Poi il senso di colpa: «Sono un mostro?».
Una palude di contraddizioni
Giro la domanda a chi ogni giorno indaga la palude di contraddizioni in cui entriamo appena uscite dalla sala parto. «Lei è una madre da 6, anche 6 e mezzo, e va benissimo così» mi tranquillizza Alessandra Simonelli, direttrice del Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione dell’Università di Padova. «La mamma inappuntabile, da 10 e lode, non esiste, e nemmeno serve per il benessere dei bambini. È frutto di una spinta culturale, alimentata da motivazioni biologiche: siccome nei primi mesi di vita il rapporto madre-figlio è stringente, si pensa che debba esserlo sempre. Ma siamo una specie in evoluzione e ognuno di noi oggi, prima ancora che una donna e una mamma, è un individuo con le proprie aspirazioni, che vanno realizzate».
E i sensi di colpa?
Evviva la sufficienza, dunque: sfangarla per il rotto della cuffia, ma con il sorriso sincero di chi può esprimersi a tutto tondo. Quanto ai sensi di colpa, sono aria fritta. «Bisogna essere abbastanza buone da intercettare i bisogni dei bambini, ma non così buone da prevenirli» dice la psicologa. «Perché, nel tempo di latenza tra le loro richieste e il nostro intervento, crescono: capiscono che devono chiedere, saper aspettare, accettare l’imperfezione dei rapporti umani. E questo non lo dico io, ma un grande psicoanalista prima di me, Donald Winnicott, colui che ha teorizzato l’idea della madre sufficientemente buona».
Un viaggio sulle montagne russe dell’emotività
Chiamo la mia amica Francesca. Anche il suo essere madre è stato un viaggio sulle montagne russe dell’emotività: 12 anni fa è arrivata Carola e 7 anni dopo, quando lei – a 45 anni – pensava già di rituffarsi nella carriera di avvocato, Beatrice. «Il più grande errore di valutazione mai fatto» le è scappato qualche mese fa alla fine dell’ennesima giornata nata sotto la cattiva stella della didattica a distanza. Perché la voglia di esserci con i figli non è una linea costante nel tempo. «È normale» dice la professoressa Simonelli. «Il padre e la madre hanno una funzione genitoriale e le funzioni cambiano nel tempo. Mano a mano che i bambini diventano più indipendenti, sentiamo il bisogno di staccarci da loro e loro di allontanarsi da noi per esplorare se stessi e il mondo, sapendo di ritornare a “fare rifornimento” nei momenti di incertezza o di difficoltà, per poi ripartire verso l’esplorazione. Questa è la lezione di John Bowlby, che con la teoria dell’attaccamento ha aperto moltissimo a questi temi già un secolo fa».
Mamme insofferenti con figli ancora piccoli
Il problema è quando l’insofferenza monta come un’onda con i figli ancora piccoli e bisognosi (giustamente) di attenzioni. «Le istituzioni devono lavorare di più sull’equilibrio di genere, garantendo pari opportunità nelle carriere professionali» dice l’esperta. «Occorre poi riflettere sul ruolo della cura: perché per tradizione spetta alla donna? Per crescere, un bambino ha bisogno di almeno un adulto di riferimento, qualcuno che sappia capire e soddisfare i suoi bisogni e accompagnarlo nel processo di socializzazione. Ma non è detto che questa figura debba essere quella materna. Anzi, sempre di più siamo di fronte a composizioni familiari con due mamme, due papà, genitori singoli, laddove l’importante è la funzione svolta dagli adulti e non necessariamente il genere o il legame biologico con il bambino».
Una gabbia troppo stretta
Spesso, però, i nonni sono anziani e le baby sitter costose. E noi mamme ci ritroviamo in una gabbia troppo stretta. «Le donne non chiedono, per paura di mettere in crisi la coppia o la relazione di co-genitorialità, ossia la condivisione con l’altro del legame e della crescita con un bambino in comune» conclude l’esperta. «Invece bisogna far valere i propri diritti con il partner. E costruirsi un “villaggio” nella mente, quello che gli esperti chiamano la “rete del supporto sociale percepito” (non necessariamente presente): un gruppo di persone, amiche, amici, colleghe disponibili se occorre, anche solo per ascoltarci. Percepirne la presenza aiuta già a sentirsi meglio».