Una strega malvagia entra nella vita di Sofia quando ha solo 13 mesi. Le toglie piccoli pezzi di autonomia giorno dopo giorno: prima perde il contatto con gli occhi della mamma, poi non riesce più a stringere un biscotto, poi arrivano le urla, le crisi epilettiche, Sofia non dorme più, non parla più, Sofia non dipingerà più. La diagnosi non lascia scampo: sindrome di Rett, una malattia degenerativa rarissima che colpisce 1 bambina su 10.000. Solo verso i 10 anni la strega malefica vola via, lasciandosi alle spalle una prigione di immobilità. Mariangela Tarì è la mamma di Sofia e ha scritto un libro duro come un macigno e dolce come un abbraccio, Il precipizio dell’amore (Mondadori), pagine composte di notte, di getto, catartiche, schiette. È la storia di una giovane coppia pugliese che lascia Taranto per Bruxelles con una valigia carica di sogni, ancora inconsapevole del maleficio che sta per arrivare. È il racconto di una vita poco prima di una diagnosi, è un cammino che ci accompagna dentro una famiglia che deve rimodulare certezze e aspettative. È l’incubo di due genitori che, già piegati dalle grave disabilità di Sofia, devono fare i conti 3 anni dopo con un’altra dura diagnosi: il secondogenito Bruno ha un tumore al cervello che lo lascia in coma per 1 mese e lo costringerà a cure e terapie pesantissime.
Anche solo una minima parte del dolore vissuto da questa famiglia potrebbe abbattermi, penso mentre sto per parlare con Mariangela: lei mi accoglie con un sorriso grande anche se ha dormito «le mie solite 3-4 ore per notte» confida ridendo. «Soffro d’insonnia, il silenzio mi ha aiutata a scrivere». Vedo dalle sue finestre il sole di Verona, la città dove suo marito Mario ha trovato lavoro e dove lei fa la maestra. «Purtroppo in modo discontinuo, gli ultimi anni sono stati molto faticosi» ammette. Mariangela non è solo una madre a cui la vita ha riservato un doppio dramma: è una donna che ha trasformato il dolore in energia, che non si è arresa alla disabilità totale della figlia, una caregiver familiare che lotta ogni giorno contro burocrazia «e migliaia di documenti Asl da fornire, di barriere da abbattere, di visite, esami, terapie, prescrizioni, ricoveri. Ma non ho un potere speciale, sono stata malissimo anche io. Però non mi sono fermata: ho studiato, cercato altre mamme, chiamato associazioni che mi indicassero la strada. Io stessa ne ho fondata una grazie all’aiuto di tanti amici: con la Casa di Sofia facciamo terapia ricreativa. Io e Mario siamo sempre andati alla ricerca di giochi adattati per bambini disabili e ora mettiamo le nostre scoperte a disposizione di tutti: per esempio, abbiamo trovato a Verona Diversamente In Danza, una scuola di “dance ability” per Sofia – anche se non muove un dito lei ama tantissimo ballare – e con un progetto da 20.000 euro abbiamo esportato la stessa esperienza a Taranto. Il problema della disabilità è che le istituzioni non si occupano della parte viva e vitale di queste persone: fai 18 anni e non esisti più, a scuola se trovi un sostegno sei fortunato (Mariangela stessa è stata insegnante di una bambina diversamente abile “parcheggiata” in un angolo della classe, ndr), non esiste una legge sul caregiver familiare, noi genitori perdiamo il lavoro, il sonno, la dignità ma non ci viene riconosciuto niente. Non compariamo nemmeno nel Recovery Plan… Nel mio piccolo cerco di aggiustare quel pezzettino di mondo che mi circonda e riesco anche a ritenermi fortunata. Ho una rete che mi sostiene, un uomo con cui condivido la vita, mentre tante madri caregiver rimangono sole perché la disabilità fa il vuoto intorno, disgrega la famiglia, la donna diventa un prolungamento del figlio malato, non dorme, non mangia, non lavora: se l’uomo che ha accanto non è capace di ricostruire con lei quello che era prima della malattia, se ne va».
Lo stesso si può dire per il rapporto con le altre mamme. «Ammetto di averle invidiate» dice. «Mi sono sempre sentita un passo indietro, sempre sbagliata. Oggi sono più saggia, non mi offendo se le persone mi “confondono” con la sindrome di Rett, mi spiace solo che Sofia non abbia amiche sue di scuola. E questo dipende dai genitori, non dai bambini. Ma ho imparato a vedere quello che abbiamo rispetto a quello che ci manca. Anche con Bruno è un lavoro continuo: adesso comincia a camminare meglio però è molto fragile, ha percezione di quello che non può più fare dopo il tumore e si arrabbia quando non riesce a giocare a calcio con gli amici o andare in bici senza rotelle: per noi genitori è un dolore forte, ogni volta è come se ricominciassimo da zero». Chiedo a Mariangela se, in una quotidianità così faticosa, c’è spazio anche per pensare al futuro. «Sto cominciando adesso a occuparmi del “dopo di noi”. Vorrei smettere di pensare che Sofia debba morire un giorno prima di me: voglio desiderare che lei possa vivere bene anche senza di me. Ma per questo servono nuove leggi e ci vuole una presa di coscienza di tutti. Sono sempre i caregiver che cercano cure, fondi, sostengono battaglie, come se fosse solo un problema nostro. Lo scrivo a conclusione del libro: “Non pensiate che siamo dei supereroi e che ce la faremo. Abbiamo reagito e siamo stati bravi ma la nostra vita è davvero, davvero difficile. Tutto è lotta, niente ci viene regalato. I nostri figli sono felici ora, con noi, ma ci sarà un tempo in cui saranno soli contro il mondo”». E c’è anche una preziosa lezione: «Quando mi incrociate con Sofia non chiedete ai vostri figli di non guardare: se le puntano gli occhi addosso è perché vogliono sapere. Abbassatevi con loro. E non dimenticate che alle spalle di un bambino malato c’è sempre la sua mamma con un mestolo in mano e un antiepilettico nell’altra, che attraversa la strada cantando Hey Jude con tutto il suo dolore».