Noi donne dell’Occidente non possiamo capire come si senta davvero in questi giorni Samira Zargari, dopo che la sua squadra è partita senza di lei per Cortina. La sua squadra è la Nazionale femminile iraniana di sci alpino e lei è la coach. Non è potuta partire con il suo team per le Olimpiadi invernali perché il marito le ha negato il visto di espatrio sul passaporto. Come a una persona indagata, o minorenne, o interdetta. Un’altra alla fine è andata al posto suo, di sicuro più fortunata di Samira: vien da pensare che abbia un marito, un fratello o un padre più illuminato di lei. O forse meno pavido rispetto al regime. Equilibri personali che diventano pericolosamente politici in un Paese (e in una coppia) che fatichiamo a capire, ma che sicuramente ci lasciano sbigottite, alla luce di diritti che noi consideriamo acquisiti e ormai parte del nostro Dna.
Già, nel 2021 in Iran succede ancora questo. Eppure, ci diciamo, Samira fa un lavoro “moderno”, non pascola le capre, ha un profilo Facebook, pubblica foto in abbigliamento da sci, sorride. Curiosiamo sul suo profilo, che non viene aggiornato dal 2018, e troviamo queste foto e ci sembra tutto un po’ più vicino a noi, se non fosse per l’abbigliamento da sci un po’ vintage.
In effetti, indagando scopriamo che l’Iran non è il Medioevo saudita, dove le donne per esempio possono guidare solo dal 2018. Ci spiega Daniele Raineri, giornalista inviato de Il Foglio, che «L’Iran è un Paese molto complesso e pieno di contrasti, apparentemente una democrazia ma soggetto in realtà a una tirannia religiosa che tenta di riportare all’indietro le spinte al cambiamento e alla modernità. Qui le donne possono vivere all’occidentale ma vedere poi limitate alcune libertà individuali, soprattutto quelle riguardanti la vita privata e di coppia. Le donne studiano, si laureano, sono coltissime, lavorano. Certi quartieri di Teheran sembrano New York, la gente è attenta alle mode e vive come noi, ma a causa delle regole religiose le donne devono sempre uscire con l’hijab e obbedire al marito. Niente ciocche di capelli in libertà e niente make up. E intanto dai social vedono le figlie dei potenti che studiano all’estero, vestono all’occidentale e si mostrano su Instagram senza troppo pudore».
Le tante Samire con mariti-padroni
La vicenda di Samira non stupisce perché lo sport, se da noi è un campo neutrale, in Iran come negli altri Paesi del Golfo è invece un campo minato e pericoloso, un terreno su cui si scontrano forze che spingono verso il limite delle regole imposte, e a volte le rompono. Samira Zargari infatti non è la prima atleta iraniana a cui il marito vieta di partecipare a competizioni internazionali. Prima di lei, nel 2015 era toccato a Niloufar Ardalan, capitana della nazionale femminile di calcio a cinque, e nel 2017 a Zahra Nemati, campionessa dei Giochi Paralimpici di tiro con l’arco. Nel caso di Ardalan il suo viaggio fu sbloccato con l’intervento della magistratura iraniana, perché la legge prevede che sia il pubblico ministero, in caso di emergenze, a decidere sul rilascio del passaporto per le donne. «Lo sport è una miccia perché proietta le persone e le relazioni da un contesto nazionale a uno scenario internazionale, dove scatta il confronto e quindi il conflitto e il divieto oppure l’apertura. Gli Emirati Arabi per esempio hanno accettato di fare match di judo con atleti israeliani, riconoscendo in questo modo il tanto odiato Israele. L’Iran invece si sta chiudendo sempre più. Non stupisce insomma la vicenda della coach perché lo sport, per di più praticato dalle donne, mette in crisi il sistema di regole e l’oppressione politica e religiosa».
La rivolta delle donne iraniane
Le donne però si stanno ribellando: «Non è raro vederle litigare in metropolitana se qualcuno fa loro osservare che una ciocca di capelli esce dall’hijab, oppure ribellarsi ai mullah per strada che le sgridano per il loro make up». Non si tratta di casi singoli ma di un movimento che negli ultimi anni si è organizzato, con il foulard bianco come simbolo di aggregazione e libertà. Donne e ragazze si radunano nei White Wednesday, il movimento lanciato da Masih Alinejad, attivista iraniana in esilio a New York, che ha invitato le connazionali a pubblicare selfie e video a capo scoperto, sventolando un foulard bianco, sulla pagina Facebook My Stealthy Freedom, dove si trovano anche le foto di Samira e il racconto della sua vicenda.
Il foulard bianco ha ispirato anche il movimento Girls of Revolution Street, da quella prima volta in cui una giovane donna, Vida Movahed, ha tolto il suo hijab bianco e lo ha sventolato su un bastone con un canto di protesta nella Revolution Street di Teheran. Il suo gesto è stato emulato e decine di donne hanno rimosso il loro hijab, mostrandolo su un bastone in pubblico, a Teheran e in altre città.
Il carcere per le ribelli e il video da brividi
Chi sfida questo sistema di regole, però, rischia grosso. Nel 2019 è toccato alla 24enne Yasaman Aryani che, con capo scoperto e rossetto rosso, aveva partecipato con sua madre e un’amica a una protesta pacifica nella metropolitana di Teheran nel giorno della festa della donna. Yasaman e le altre due donne sono state condannate a 55 anni di carcere e sei mesi per aver violato il codice di abbigliamento islamico con il “mancato rispetto dell’hijab obbligatorio”.
A far scattare l’arresto sarebbe stato il video, diventato virale sui social, che mostra le tre mentre, senza velo, distribuiscono fiori alle donne nella metropolitana di Teheran durante l’8 marzo del 2019. Alcune donne stringono a sé i figli, spaventate. Altre applaudono. Guardatelo, fa venire i brividi. Una delle attiviste dice cantando: «Verrà il giorno in cui le donne non saranno costrette a lottare», un’altra consegna un fiore a una donna col velo: «Spero di camminare fianco a fianco per strada un giorno con te, io senza l’hijab e tu con l’hijab». Molte sono infatti le donne che appoggiano il regime religioso e indossano il velo con convinzione.
Il video della principessa Latifa prigioniera
Gran parte del mondo arabo comunque vive queste spinte di oscurantismo verso le donne: negli Emirati Arabi Uniti la principessa Latifa ha recapitato un video alla BBC accusando il padre, il sovrano di Dubai, di tenerla prigioniera da quando nel 2018 ha tentato di fuggire dalla città. In Arabia Saudita Loujain al-Hathloul, 31enne attivista per il diritto delle donne saudite a guidare l’automobile, è stata liberata da pochi giorni dopo essere stata condannata a cinque anni e otto mesi di prigione ed averne passati in carcere più di tre.