Basta con i buoni sentimenti da famiglia del Mulino Bianco, con la retorica dolciastra che un figlio è sempre e comunque un dono del cielo. A spazzare via un falso senso comune è un libro-verità: Zigulì (Mondadori). Un figlio – ha il coraggio di ammettere – può rappresentare un gigantesco problema. Vale per tutti, naturalmente. Ma il rapporto può essere ancora più difficile se c’è un bambino handicappato grave, cieco, muto, epilettico e con deficit cognitivo. È il caso di Moreno, 8 anni. Suo padre, Massimiliano Verga, 42, docente di sociologia del diritto all’Università Bicocca di Milano, è l’autore di Zigulì. In quelle pagine, come un fiume in piena, mette a nudo la propria rabbia, il rifiuto, il senso di impotenza verso il figlio. Infine, l’amore. Ha il coraggio di svelare una realtà che tanti genitori preferiscono tacere. Il bisogno di guardarsi dentro, di aprirsi, di trovare una via, è tale che metà del libro Massimiliano l’ha scritta con furia in una sola notte, dopo una giornata passata con Moreno in un parco giochi.
L’inizio è un cazzotto nello stomaco. Spiega il perché del titolo. «Il cervello di Moreno» scrive «è grande come una Zigulì. Quand’ero bambino, mi piacevano molto quelle caramelle. Il cervello di Moreno mi piace un po’ meno. A volte penso che sarebbe bello poterlo mangiare, proprio come una caramella. Ma se potessi farlo, non vorrei sentirne nemmeno il gusto. Lo manderei giù come una pastiglia per il mal di testa. Così sparisce del tutto e non ci penso più». Vorrebbe cancellare il cervello di suo figlio? La presenza di Moreno, così com’è, dalla sua vita?
«Accidenti, no! Con quelle frasi volevo esprimere solo il senso di inadeguatezza che provo nei suoi confronti. Il mio disagio quotidiano, minuto per minuto. Questo libro è stato un modo per guardarmi allo specchio. I toni crudi e bruschi sono rivolti a me stesso. Una Zigulì, poi, è una caramella. È dolce e buona, come Moreno. Quando dico che vorrei mandar giù il cervello di mio figlio, grande come una Zigulì, è un modo disperato per dire che vorrei per un attimo spegnere l’interruttore, la fatica che sopportiamo entrambi. Solo un attimo di tregua. A volte non ce la facciamo davvero più, lui e io».
Direbbe che la vita di suo figlio è degna di essere vissuta?
«Se mi avesse fatto questa domanda qualche anno fa, quando Moreno soffriva molto più di oggi, avrei faticato a risponderle. Oggi sta meglio, è sereno, la risposta è sì».
“Uno dei vantaggi di avere un figlio handicappato” aggiunge nel libro “è che puoi permetterti di essere un idiota e di trattarlo anche male. E io mi concedo spesso questo vizio”.
In che senso lo tratta male e perché sente il bisogno di raccontarlo?
«Più che trattare male, prendo in giro Moreno, a volte brutalmente. Per esempio lo chiamo Zigulì. Ma la presa in giro è una ricerca di complicità e di affetto profondo. Lo racconto per espiare questo mio atteggiamento non so se giusto o sbagliato».
Scrive anche: “Se potessi avere cinque centesimi per tutte le volte che mi fai incazzare, avrei tanti soldi da poter mantenere il quartiere in cui vivo. Mentre se potessi avere cinque centesimi per tutte le volte che mi hai reso felice, forse potrei comprarmi un gelato”. L’handicap di suo figlio è una maledizione?
«Cosa vuole che le risponda? Non riesco a considerare un regalo la malattia di Moreno: un mese dopo la nascita, per un’ischemia, ha subito gravi danni cerebrali, è cieco, non parla. Potendo, sia io che lui faremmo a meno di tutto questo. Ma la sfiga è arrivata e me la prendo sulle spalle. Non posso e non voglio fuggire. Anzi, nel libro ho scritto che sto scegliendo i gusti del gelato conquistato per i momenti di gioia: significa che a volte Moreno e io siamo felici».
Eppure la sua vita con Moreno la descrive così: “Ho dovuto aspettare più di sei anni prima di avere un tuo abbraccio senza morsi, graffi, calci”. Quando fa il bagno, lui riempie la vasca di cacca, urla in continuazione. Lei dice che preferirebbe mangiare sabbia piuttosto che sentire la sua voce…
«È vero. La prima volta che Moreno mi ha abbracciato aveva sei anni. Aveva perduto un dentino e non sapeva cosa stesse succedendo. Così mi ha stretto le braccia attorno al collo, si è affidato a me. È stato bellissimo. In passato avevo cercato di abbracciarlo tante volte ma sentivo di non trasmettergli nulla. Quando urla e non so perché è straziante, così viene da urlare anche a me. Non sopporto di essere tagliato fuori. Sono alla costante ricerca di uno scambio con lui. Ho l’impressione che Moreno riesca a sentirmi meglio di quanto io capisca lui».
Moreno sa che lei è suo papà, insomma una persona che gli vuole bene?
«Non ho dubbi. Impazzirei se fosse il contrario. Il mio amore per lui è un amore disperato ma assoluto, il nostro affetto una ricerca e uno smarrirsi continuo, un legame che fa soffrire, che graffia. Quando stiamo insieme, siamo la stessa cosa. Io sono lui, lui è me: entrambi disabili».
Un altro capitolo è di una schiettezza da brivido. S’intitola “Farti fuori”. “Non credere che non ci abbia pensato. Pensato di ammazzarti”…
«Ho già detto che questo libro è un dialogo allo specchio. Se ho fantasticato di uccidere qualcuno, pensavo a me stesso. A Moreno non avrei mai fatto male. Però quando leggo di genitori con un figlio handicappato che si abbandonano a gesti estremi, sospendo il giudizio. Io non lo farei. Ma bisogna vivere la loro situazione prima di giudicare».
“A quante cose ho rinunciato da quando sei nato?” riflette nelle sue pagine. “Non saprei dire, ma ragioniamo per approssimazione. Ad esempio, prendiamo un dizionario e mettiamo in fila tutti i verbi che troviamo. Tranne la forma riflessiva di ‘incazzare’”. È una vita di rinunce la sua?
«Le rinunce sono inevitabili, anche se io mi faccio carico di Moreno assieme a tanti altri: sua madre prima di tutto, i suoi fratelli, Jacopo di 10 anni e Cosimo di 5, una straordinaria associazione, “L’abilità”, con operatori ed educatori fuori dal comune, una bravissima fisioterapista. Senza di loro sarei morto. Poi Moreno frequenta una scuola per disabili con maestre che hanno una competenza incredibile. La realtà quotidiana però è fatta di tanti aspetti. Prendere un autobus con un ragazzo disabile è un inferno. Una politica sociale più attenta renderebbe molto più umana la vita di persone come me e Moreno. E io sono fortunato! Abito in una città evoluta come Milano. In alcune città del Sud sembra che i disabili non esistano perché stanno chiusi in casa».
Per chi ha scritto questo libro: per altri genitori nelle sue condizioni, per chi non sa nulla di questi drammi, per Moreno che non potrà mai leggerlo?
«Per tutte le persone di cui parla. Anche per chi guarda Moreno con simpatia, senza commiserazione o ipocrisia: questo libro potrebbe allargare loro lo sguardo. Ma soprattutto ha aiutato me a capire il rapporto quotidiano con mio figlio. Scrivendo ho dato una forma alla rabbia e all’amore che avevo dentro. Credo di aver trovato molte risposte e un’energia nuova». Cos’ha imparato da suo figlio?
«Il rispetto per i più deboli. Credo che sia un’intuizione d’affetto, mi viene da chiamarla così, che tutti i disabili trasmettono a chi sta loro vicino».
Su dieci padri con un figlio disabile grave come il suo quanti sarebbero d’accordo con lei? E quanti avrebbero il coraggio di ammetterlo?
«Non so dirlo, ma in questo periodo sto ricevendo decine di mail da genitori con figli disabili, che mi raccontano la vita dei loro cari o di se stessi. Sono scambi molto intensi. “È la prima volta” mi confessano “che riesco a parlare di qualcosa che mi è rimasto in gola per anni. Sei bravo, mi ha fatto bene leggerti!”. Qualcuno trova la forza di ammettere: “Provo i tuoi stessi sentimenti”. Ma mi aspetto anche reazioni di offesa, a cui non potrei rispondere che con delle scuse per aver urtato la sensibilità di persone vulnerabili, che hanno difficoltà a difendersi, come un disabile o i suoi genitori».