Ogni matrimonio è un patto
Barack e Michelle Obama si incontrano in uno studio legale di Chicago: lui stagista di ottime speranze, lei la sua tutor esigentissima. Dopo qualche uscita camuffata da incontro di lavoro, al primo appuntamento Barack la porta prima a fare un giro all’Art Institute e poi al cinema a vedere Fa’ la cosa giusta, il film di Spike Lee. Michelle, imperturbata, commenterà qualche anno dopo: «Voleva mostrarmi il suo lato sofisticato».
Entrambi giovani, brillanti, in carriera, nel 1992 Michelle e Barack Obama si sposano convinti che la parità sia un esercizio quotidiano, e per i primi anni sembra funzionare: «C’era proprio una simmetria nella maniera in cui ci completavamo. Potevamo coprirci le spalle a vicenda, proteggerci reciprocamente. Potevamo essere una squadra» ricorda lui. Ma adesso che abbiamo letto tutt’e due le voci del racconto – nell’autobiografia di lei, Becoming: la mia storia, uscita nel 2018, e in quella di lui, Una terra promessa, arrivata due anni dopo – sappiamo che neanche per loro è stato sufficiente prometterselo. La vita non tiene conto delle intenzioni.
Ogni matrimonio è una ferita
Barack insegna alla Law School di Chicago, Michelle dirige un programma di aiuti per giovani svantaggiati, insieme vogliono costruire una famiglia. All’improvviso a Barack si presenta l’occasione di essere eletto al Senato dell’Illinois: in fondo si tratta solo di lavorare a Springfield tre giorni a settimana. Ma la gravidanza non arriva, Michelle ne fa una missione, e quando subisce un aborto spontaneo si sente depressa. Decidono insieme di provare con la fecondazione assistita, ma di fatto lui prosegue la sua vita, lei rimane «sola a manipolare il mio sistema riproduttivo per portarlo al massimo dell’efficienza».
Nel giro di tre anni nascono Sasha e Malia; Barack è un padre tenerissimo, ma sempre fuori sede. Invece c’è una fase nella vita in cui essere genitori è una questione fisica: «Mi sembra di fare tutto da sola», gli dice sfinita lei una sera. Lui capisce, persino promette. Ma decide comunque di candidarsi al Congresso. È in questo periodo che Michelle avverte «un primo fremito di risentimento nei confronti della politica e dell’incrollabile dedizione al lavoro di Barack. O forse era solo la percezione del fardello di essere donna». Una sua prima, importante, lucida analisi ma che da sola non basta a tenere insieme una coppia.
Ogni matrimonio è un compromesso
Michelle riprende a lavorare, tesse una rete di supporto, si affanna perché tutto funzioni. La prospettiva di una nuova campagna elettorale la entusiasma «quanto farsi devitalizzare un dente», scrive lui. Inoltre, è preoccupata perché per evitare conflitti di interesse Barack deve smettere di fare l’avvocato, e non hanno ancora finito di restituire il debito studentesco. Insomma: quella candidatura al Senato le pare un’idea pessima. «Era come se al centro del nostro rapporto si fosse formato all’improvviso un nodo che non riuscivamo a sciogliere», scrive lei. E qui, nei due libri, il racconto della stessa storia diverge.
Nella versione di Barack, Michelle acconsente con una certa riluttanza alla candidatura: «Questa è l’ultima volta, e non aspettarti che io faccia campagna elettorale. A dirla tutta, faresti meglio a non contare neanche sul mio voto». Nella versione di Michelle è Barack ad acconsentire, con la medesima riluttanza, a seguire una terapia di coppia. Insieme capiscono che da soli per quanto sia grande il loro amore non ce la possono fare.
Ma anche qui a capirlo per prima e a fare i conti con la crisi è Michelle. Non devono esserci un vincitore e un vinto: sarebbe il primo passo verso la separazione. Saprà restare al suo fianco, ma da quel momento pretenderà che la passione di Barack per la politica non tolga ossigeno al loro amore. Stabiliscono una ferrea routine familiare e non tocca più a lei adeguarsi ai suoi orari folli: «Adesso era lui che doveva stare dietro a noi». Scaricarsi dalla responsabilità di far funzionare tutto, racconta Michelle, è stata la sua «manovra di salvataggio».
Ogni matrimonio è un’alleanza
Dopo il discorso alla Convention democratica del 2004, in molti si convincono che la corsa del giovane senatore Obama non possa che concludersi alla Casa Bianca. Michelle tentenna, ma quando Barack le spiega che «il giorno in cui dovessi alzare la mano destra per giurare come presidente degli Stati Uniti, il mondo vedrà l’America con occhi diversi» scocca la scintilla di quella fede condivisa.
Comincia a dipanarsi la coreografia di un memorabile passo a due. Barack è il presidente, sì, ma Michelle sa inventarsi il ruolo di First Lady. Nonostante gli odiosi commenti della stampa, la sua capacità di arrivare al cuore di ogni questione la rende la persona più popolare dell’intera amministrazione. Michelle capisce che la sua forza è nell’essere complementare. Conosce le debolezze del marito e diventa la sua messa a terra: apre la Casa Bianca ai cittadini, coltiva un orto, si preoccupa che i bambini d’America mangino sano. In pubblico lui non ha per lei che parole d’amore e gratitudine; lei invece lo prende in giro ogni volta che può. Lui la esalta, lei lo sdrammatizza. In un gioco di squadra finalmente autentico.
L’hanno chiamata la loro “manovra di salvataggio”: Michelle smette di affannarsi perché tutto funzioni, Barack accetta una ferrea routine familiare. Da quel momento diventano, oltre che amanti, alleati.