Come lavorano i medici dei nostri ospedali? Quanti turni notturni si sobbarcano e quanti straordinari continuano a fare, anche dopo i limiti di orario messi sulla carta dall’Unione europea? Con quali conseguenze per i pazienti? Risponde una recente inchiesta condotta su più di mille camici bianchi e resa nota dall’associazione di categoria Anaao-Assomed.
Il quadro che esce è considerato “allarmante”.
La denuncia di medici e dirigenti ospedalieri
Turni notturni frequenti e massacranti. Una media di 50 pazienti da seguire, con punte che superano i 200 e più. Casi frequenti di due urgenze cliniche da affrontare in contemporanea. Calo dei livelli di sicurezza in corsia. Il tutto a causa dei tagli dei finanziamenti al sistema sanitario, del blocco del turn over del personale e della riduzione dei posti letto. L’ultima indagine resa nota da Anaao-Assomed, condotta su un campione di oltre mille camici bianchi ospedalieri, porta a conclusioni pesanti. Quello che esce dalle risposte date dagli operatori in prima linea, secondo le conclusioni dell’associazione di categoria, è il “quadro allarmante, di rischio e di fatica, in cui il medico vive ogni giorno e ogni notte nell’esercizio della professione”.
Orari massimi sforati
Nonostante l’entrata in vigore della normativa europea sul rispetto dell’orario di lavoro, con “paletti” rigidi, il 44.7 per cento dei medici ospedalieri intervistati supera il limite settimanale previsto dalla legge e più della metà lavora oltre il turno prestabilito, spesso senza esser pagato.
La ragione? Le nuove disposizioni su ore di servizio e riposi, rileva Anaao-Assomed, non “sono state precedute né accompagnate da necessari processi di riorganizzazione e di adeguamento della dotazione organica”. Così il 37.7 per cento dei medici d’ospedale intervistati, quasi tutti di strutture pubbliche, effettua da 1 a 3 guardie notturne al mese, il 30.7 per cento 4 o 5 turni di notte, il 9.1 per cento tra 6 e 7, il 3.5 per cento oltre 8, i restanti non ne fanno. Tra gli stakanovisti dell’orario disagiato non ci sono solo i più giovani. Anzi. Prevalgono i colleghi di mezza età. Il 40 per cento dei medici italiani ha più di 60 anni, con un’età media attestata intorno ai 53 anni.
Pazienti in carico di notte
Il 59.9 per cento dei camici bianchi interpellati gestisce meno di 50 pazienti per ogni turno di notte. Ma c’è un 5.2 per cento che ne ha in carico più di 200, con un altro 17.7 per cento che segue tra i 50 ed i 100 malati e il 10 per cento tra i 100 e i 200. Capita poi che si sovrappongano compiti diversi. Il 7.3 per cento dei medici è di turno in pronto soccorso e contemporaneamente di guardia, per almeno 50 degenti. Non mancano le differenze tra aree geografiche. Nel Nord-ovest a ben il 10.8 per cento dei dottori fanno capo oltre 200 degenti, mentre al Sud la percentuale di medici con numeri record di assistiti scende al 2.9.
I malati fuori reparto
Un altro problema evidenziato è rappresentato dai ricoveri dei pazienti in reparti diversi da quelli previsti per le patologie di cui soffrono. Il 73 per cento dei medici coinvolti nella ricerca deve seguire degenti “fuori reparto” e la metà di loro lo fa di frequente. Quindi il malato si trova a contatto “con infermieri formati per problemi clinici differenti”, non ha più “la continuità e assiduità del medico referente in reparto”, sconta “problematiche prettamente pratiche, come ad esempio la difficoltà nel reperimento di farmaci non di uso corrente nel reparto d’appoggio e i problemi di comunicazione tra il medico, il personale infermieristico e i parenti”. Inoltre il paziente ricoverato in appoggio ha una degenza media più lunga (2.6 giorni) rispetto al paziente ospitato nel reparto di appartenenza.
Letti tagliati e ricoveri bis
La riduzione dei letti ha determinato un incremento del numero di re-ricoveri. Quasi un paziente anziano su 5 oltre i 65 anni torna al pronto soccorso dopo le dimissioni: il 17.3 per cento rientra in ospedale una sola volta, il 4.4 per cento più volte nel mese successivo. Eppure Il 31.8 per cento dei medici consultati garantisce di seguire in modo ottimale il protocollo delle dimissioni protette. Il 32.8 per cento, pur conoscendo la procedura standardizzata, non sempre riesce ad aderire completamente per problematiche organizzative, il 2.5 per cento non ne ritiene utile l’applicazione, ben il 33.1 per cento ne ignora l’esistenza nel proprio ospedale.
La scure sui finanziamenti
Cittadinanzattiva ha calcolato che tra il 2011 e il 2015 il finanziamento del servizio sanitario nazionale ha subito un taglio di 54 miliardi. Anaao- Assomed elenca le conseguenze, sotto gli occhi di tutti. “Per far quadrare i bilanci, le aziende sanitarie hanno ridotto i posti letto (- 25.000, dal 2009 al 2014), hanno bloccato il turnover del personale (- 24.000 addetti dal 2009 al 2014, considerando sia medici sia infermieri), hanno ridotto l’investimento in ammodernamento delle strutture e delle tecnologie. Si è contratta di conseguenza l’offerta di prestazioni diagnostiche, di interventi chirurgici e di ricoveri.
Le liste d’attesa sono aumentate diventando una vera e propria barriera fisica per il diritto di accesso alle cure da parte dei cittadini. I pronto soccorso in mancanza di posti letto per il ricovero si sono trasformati in luoghi di stazionamento indegni ed insicuri, più vicini a gironi infernali che a luoghi civili di accoglienza. Chi ha disponibilità economiche si rivolge al privato, anche a causa dei ticket molto esosi del settore pubblico che rendono competitiva l’offerta privata di prestazioni sanitarie low cost. E chi versa in condizioni economiche disagiate – sottolinea sempre l’associazione di categoria – è costretto a rinunciare alle cure”.
Scende l’aspettativa di vita
In questo contesto l’aspettativa di vita nel 2015, per la prima volta dopo molti anni, si è ridotta di 3 mesi per le donne (scendendo a 84,7 anni) e 2 mesi per i maschi (80,1). La mortalità generale è aumentata del 9.1 per cento rispetto al 2014 (fonte Istat 2015) e gli anni in buona salute dopo i 65 anni per i cittadini italiani sono appena 7-8, a differenza dei 14-15 di Islanda, Norvegia o Svezia (fonte Eurostat 2015).