L’emergenza per il Covid-19 ha rivoluzionato le nostre abitudini e costretto a ricorrere a strumenti nuovi in ogni campo, sanità compresa. Anche i medici durante il lockdown sono passati allo smartworking facendo ricorso ad esempio a WhatsApp per rimanere in contatto con i propri pazienti o utilizzando App e piattaforme come Teams per visitare da remoto di chi stava male. Di fronte alla pandemia, dunque, si è fatto di necessità virtù, accelerando l’innovazione: ma cosa rimarrà ora? Che cosa possiamo fare oggi grazie alla telemedicina e cosa manca?
Medici in smartworking
Più della metà (51%) dei medici di famiglia ha lavorato da remoto durante l’emergenza sanitaria, giudicandola positiva «sia per quanto riguarda la condivisione delle informazioni che per la capacità di rispondere alle richieste urgenti» spiegano dall’Osservatorio per l’Innovazione Digitale in Sanità della School of Management del Politecnico di Milano, che ha condotto una ricerca sulla Connected Care durante l’emergenza Covid-19, ossia su come il digitale possa supportare i cittadini, i medici e le aziende sanitarie nella cura e assistenza. Secondo lo studio se già prima dell’emergenza il 56% dei medici di medicina generale e il 46% degli specialisti usavano WhatsApp per comunicare con il paziente, queste percentuali sono destinate a salire rispettivamente al 69% e al 50%, considerando anche strumenti come Skype e Zoom o piattaforme dedicate. «I medici di famiglia erano abituati a recarsi nel proprio studio medico, prestando assistenza di persona ai pazienti. Nel pieno dell’emergenza, invece, hanno dovuto ridurre le visite in presenza ricorrendo ai consulti telefonici (come il triage per identificare possibili casi Covid) e limitare drasticamente l’accesso agli studi, di fatto lavorando da casa. Più che smartworking, il loro è stato un lavoro da remoto, destinato però a non scomparire del tutto col ritorno alla normalità» spiega Chiara Sgarbossa, Direttore dell’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità.
Televisite e consulti tramite Teams o Skype
Una novità per tutti è stata la possibilità di invio della ricetta in formato elettronico, anche in farmacia, evitando di dover raggiungere gli ambulatori o di fare lunghe code in luoghi spesso affollati. Un’altra possibilità è ora rappresentata dalle visite e dai consulti a distanza che, dal sondaggio dell’Osservatorio in collaborazione con la Federazione Italiana Medici di Medicina Generale (FIMMG), è risultata aumentata formetemente nella fase di pandemia, secondo il 93% dei medici. Per il 72% si è utilizzato più di un canale per gestire il rapporto col paziente: telefono, WhatsApp, ma anche Skype. «Abbiamo notato un interesse molto elevato nei confronti di piattaforme di collaboration come Teams, usato nelle aziende sanitarie non solo come strumento per il personale, ma anche per vedere i pazienti da remoto, per poterci parlare e avere un contatto maggiore rispetto a quello di una telefonata» spiega Sgarbossa.
Come si fa una visita a distanza
Alcuni ospedali manterranno anche nei prossimi mesi alcune pratiche introdotte durante la pandemia: «Al San Raffaele di Milano, ad esempio, si possono effettuare le televisite con diversi medici specialisti. All’Istituto Besta, sempre a Milano, si usa Teams per visite in videoconference a pazienti già in cura presso la struttura e che hanno bisogno di un monitoraggio periodico – spiega Sgarbossa – «Non tutto può essere remotizzato: i medici di base ritengono però che circa un terzo delle visite (30%) possa avvenire a distanza, sia che si tratti di pazienti cronici che necessitano di un controllo nel tempo, sia per gli altri. Con gli specialisti la percentuale è di circa un quarto (24%) per i cronici e del 18% per tutti gli altri». «Un esempio concreto è quello dei diabetici che hanno bisogno di visite scadenzate durante l’anno: la tecnologia permette ormai di rilevare alcuni parametri di riferimento, come peso, pressione o glicemia, direttamente da casa e di poterli monitorare dallo studio medico: è quello che viene chiamato telemonitoraggio» dice la direttrice dell’Osservatorio Innovazione Digitale per la Sanità del Politecnico di Milano.
Cos’è il telemonitoraggio e telesorveglianza
«Durante l’emergenza, si è fatto spesso ricorso alla telesorveglianza dei pazienti Covid-19 che non necessitavano di ricovero ospedaliero, dotandoli di misuratore della temperatura, un pulsossimetro per controllare i livelli di ossigenazione del sangue e di misuratore di pressione. In alcuni casi l’invio dei dati è avvenuto in modo tradizionale tramite telefonate, in altri invece erano dotati di App specifica connessa direttamente con i medici e gli infermieri di riferimento – spiega l’esperta – Terminata l’emergenza, per tutti i pazienti la strada seguita è quella delle Applicazioni che permettono la trasmissione dei dati a piattaforme specifiche in modo automatico, in maniera che infermieri o medici curanti possano monitorare la situazione e intervenire tempestivamente in caso di aggravamento. Sempre nel caso dei diabetici, ad esempio, è possibile controllare da remoto in tempo reale la glicemia o il peso tramite glucometri e bilance connessi via bluetooth ad App specifiche».
La telemedicina e gli smartwatch “sanitari”
Buona parte della telemedicina dell’immediato futuro passa attraverso oggetti wearable, indossabili, come gli “orologi intelligenti”. Il funzionamento, proprio come nel caso di App come Immuni, è tramite bluetooth: i dati raccolti dallo smartwatch sono trasmessi all’App, che può inviarli in modo sicuro direttamente a un centro di controllo a cui ha accesso il medico. «Alcuni dispositivi sono in grado di rilevare il battito cariaco e di fornire un vero elettrocardiogramma. L’Apple Watch ha già la certificazione che ne attesta l’affidabilità come dispositivo medico. In Italia è stato utilizzato, presso l’Ospedale Fatebenenefratelli – Isola Tiberina di Roma, da più di 4.000 cittadini che hanno partecipato a una campagna di prevenzione dei rischi della fibrillazione atriale. Sono, inoltre, in corso altre sperimentazioni che prevedono l’utilizzo dell’Apple Watch per il tele-monitoraggio cardiologico, sempre per fibrillazione atriale. Lo smartwatch fornisce un tracciato ed è in grado di rilevare eventuali anomalie, segnalandole, in modo che il medico effettui una valutazione e decida, ad esempio, di indirizzare il paziente in pronto soccorso per evitare un infarto o di fare approfondimenti» spiega Sgarbossa.
L’uso dell’intelligenza artificiale
Proprio la possibilità di ricevere notifiche dai dispositivi è resa possibile e incrementata anche dall’intelligenza artificiale in medicina, a cui si è fatto ricorso anche nelle diagnosi Covid in pandemia. «Ha supportato i medici (ma non sostituito) nelle diagnosi di polmoniti interstiziali, per esempio al Campus biomedico di Roma, all’ASST di Vimercate, in Brianza, e al Maugeri di Pavia insieme al Policlinico della città lombarda. Sulla base di una serie di dati forniti anche in alcuni casi dalla casistica cinese, il sistema di AI ha imparato ad associare alcune immagini (da lastre RX, NdR) alla diagnosi specifica e ha segnalato i casi che potevano essere Covid. Naturalmente non è detto che lo siano: spetta sempre al medico l’analisi e validazione finale. L’idea, però, è di migliorare questo strumento arrivando a una medicina di precisione» spiega Sgarbossa.
La medicina di precisione (o personalizzata)
«L’uso dell’AI in medicina non è una novità legata al Covid, ma sicuramente ha avuto un’accelerazione. Per il coronavirus si sono utilizzate soprattutto le immagini delle radiografie, ma le potenzialità sono molte. Per esempio, inserendo negli algoritmi clinici di un paziente e, conoscendo anche patologie pregresse, l’Intelligenza Artificiale è in grado di suggerire una specifica terapia o di rilevare eventuali complicazioni dovute alla condizione contingente della persona che in quel momento è in trattamento, in modo da adottare cure specifiche» dice Chiara Sgarbossa, del Politecnico di Milano.
La necessità di digitalizzare i dati dei pazienti
Per poterlo fare, però, occorre che i dati siano digitalizzati: «I dati presenti nella cartella clinica, per poter essere condivisi e analizzati, non possono essere su formato cartaceo. Occorre una massiccia informatizzazione in ambito sanitario, come sottolineato anche dal recente piano nazionale Colao, che prevede, ad esempio, la realizzazione di una piattaforma pubblica che integri telemedicina e nuove tecnologie di acquisizione dei dati sanitari, ritenuti fondamentali anche da noi per l’innovazione in campo sanitario» sottolinea Chiara Sgarbossa. Ma l’Italia a che punto è? «Qualche progresso c’è stato, ma resta ancora molto da fare soprattutto se si pensa a paesi come Israele, che rappresenta un’eccellenza. Lì nel costruire i nuovi ospedali, hanno pensato già a dotarli di tutti gli strumenti digitali necessari. Anche negli Usa la telemedicina è avanzata, ma con un sistema sanitario che non è paragonabile al nostro, non essendo pubblico» spiega Chiara Sgarbossa, direttrice dell’Osservatorio Innovazione Digitale per la Sanità del Politecnico di Milano. .
I medici non hanno ancora tutti gli strumenti
Per poter attuare la digitalizzazione occorrono non solo investimenti nelle strutture sanitarie, ma anche la disponibilità di supporti adeguati da parte del personale. Dotare il personale anche solo di un PC portatile per lavorare da remoto è stato ritenuto fondamentale dall’89% delle aziende sanitarie, ma solo il 6% si riteneva pronto su questo fronte e solo il 31% ha potenziato questi strumenti durante l’emergenza, secondo il sondaggio del Politecnico. Fondamentale anche l’aspetto di Cyber Security (per l’87% delle aziende), con il 53% che riteneva di disporre pienamente di soluzioni adeguate nella protezione delle reti e dei dati. « Per circa 8 aziende sanitarie su 10 il personale dovrebbe avere tablet e smartphone, ma solo «il 30% delle aziende ha fornito strumenti mobili al personale».
Infine, va considerato che, soprattutto per le persone anziane, non è facile abituarsi all’idea di rinunciare al contatto personale con il proprio medico, alla possibilità di raccontare sintomi ed esigenze. Proprio pensando anche a loro molti medici ritengono che una quota consistente di visite in presenza (circa il 70%) non verrà meno, considerando il ruolo anche sociale della loro professione.