Ormai sono dodici anni che frequento Milano, più di uno che ci vivo, e una delle prime abitudini milanesi che ho assunto è quella di correre dietro ai tram anche a costo della mia vita.
Non c’entra che abbia fretta o debba andare o no da qualche parte, è ininfluente: se c’è un tram all’orizzonte io lo devo prendere, come un cane che non sa perché corre dietro al bastone che è stato lanciato, semplicemente non può lasciarlo per terra.
A rendere ancora più comica quest’idiosincrasia è il fatto che tra l’arrivo di un tram e l’altro passano mediamente otto minuti, che in qualche caso disperato possono salire addirittura fino a dodici.
Io vengo dalla provincia e non ho la patente, quindi perdere un mezzo, per me, significa ancora innescare un domino di reazioni a catena che causerà inevitabilmente un ritardo di circa tre ore.
Ora che vivo a Milano questo problema non esiste più, eppure quei dodici minuti – un lasso di tempo ridicolo rispetto alle attese in provincia della mia adolescenza – sembrano fare letteralmente la differenza sulla mia giornata.
Vedo il 14 da lontano, corro e riesco a saltarci su con un balzo felino appena prima che il conducente chiuda la porta? Buona giornata. Lo vedo da lontano, rinuncio e lo lascio andare? Giornata così così. Lo vedo da lontano, corro e arrivo quasi a toccarlo, ma il conducente mi chiude le porte in faccia? Pessima giornata.
Mi rendo conto che in pratica sto parlando della fantomatica “fretta” di cui ci accusano tutti: “i milanesi van tutti di fretta”. Non ho modo di negare e vi dirò, non lo farei neanche. Mi sembra un tratto distintivo divertente, che si adatta a me. Anche perché in realtà Milano offre una serie infinita di luoghi dove fermarsi, passeggiare, pensare. Luoghi silenziosi, addirittura.
Milano è frammentata, è per questo che riesco a trovare sempre un frammento che fa per me quel giorno, in quel momento. A seconda della metro su cui sali, puoi essere una persona diversa da quella che eri prima, che eri ieri, che sarai domani. Fosse anche solo per un’ora.
E mi viene sempre in mente, questo, perché per un breve periodo ho preso in considerazione l’idea di trasferirmi a Roma, che nel mio amore per le grandi città mi appariva come la sola alternativa valida. Ma non lo era.
Milano si adatta a te: a Roma, tu devi adattarti a Roma. Ai suoi modi di fare, ai suoi spazi, al suo essere sempre drammaticamente se stessa, in ogni angolo, nella buona e nella cattiva sorte. Se penso ai periodi – abbastanza lunghi – che ho passato a Roma, mi torna in mente una cosa: il rumore.
Lo so, la bellezza e bla bla, l’abbiamo capito, va bene. Ma soprattutto, il rumore. Roma è rumorosa. Ci sono troppe macchine che suonano troppo il clacson, la gente parla a voce troppo alta e si rivolge troppo facilmente a te anche se non ti conosce, dà troppo per scontato che la troverai simpatica istintivamente, forse perché un’infinità di film ci hanno insegnato che anche il solo accento romano è simpatico. E’ difficile, quando non sei d’accordo. E’ difficile restare sulle tue senza passare per quella del Nord che è fredda e “se la tira”.
Non me la tiro. Solo, mi piace essere io a decidere quale distanza voglio mettere tra me e gli altri, con calma. Ricordo un pomeriggio in rosticceria, l’amica che era con me ordinò una fetta di pizza con le verdure e la signora che la serviva sentì di dover dire la sua. La mia amica era troppo magra, spaventava il fidanzato, così, non la voleva una pizza col salame, eddai, eddai.
La mia amica era romana, aveva un problema molto serio col cibo, ed era molto a disagio. Uscita dalla rosticceria scrollò le spalle: “capita”. E io pensai, rendendomene conto io stessa per la prima volta: “a Milano no”. E’ una sciocchezza, ma una sciocchezza alla quale ma mia amica era abituata, e alla quale io non riuscivo nemmeno a pensare di abituarmi. Che devo dirvi, sono piemontese.
Per un lungo periodo della mia vita ho dato semplicemente per scontato che sarei finita a Milano, senza fastidio, ma senza entusiasmo. Semplicemente, tutto sembrava portarmi lì. Il mio fidanzato, i miei interessi, più tardi la mia casa editrice.
Il mio primo romanzo racchiude il sentimento di quando l’ho odiata, Milano. Un sentimento che, dovendo riassumerlo, lo farei in una domanda: perché non sei riuscita a cambiarmi la vita?
Prometteva tanto, tutto, e invece non mi aveva regalato niente, anche se credevo di meritarlo. Strade sporche, stazioni del passante fatiscenti, disperati accoccolati sugli sfiati dei negozi. Mi sembrava tutta lì, Milano. Mi aveva tradita.
E paradossalmente, mentre usciva il libro in cui dicevo questo, io mi reinnamoravo di Milano, e capivo. Che in effetti sì, Milano non ti regala niente. Ma non ti promette neanche niente. Non ti abbaglia con la sua bellezza, come Roma, per poi abbandonarti al suo disordine. Prima ti costringe a sopravviverle, a vederne solo il brutto, a imparare a resistere. E solo dopo, quando stai in piedi da sola, ti mostra i suoi scorci di inaspettata, quasi struggente bellezza.
Mi piace Milano non perché è migliore, ma perché è simile a me: chiede di rispettare i suoi spazi, ti osserva, può sembrare fredda. Solo quando la accetti, e lei ti ha accettata, si dà. E quando si dà lo fa interamente, senza riserve. Lo fa consumandosi, quasi. Lo fa cambiando continuamente, trasformandosi instancabilmente.
Niente a Milano è uguale da un mese all’altro, tutto è in divenire, è sempre in costruzione.
Mi piace Milano perché è la città in cui credevo che sarei finita, invece è diventata la città che ho scelto, e che continuo a scegliere.
Mi piace perché correre dietro al tram, anche sapendo che ne passerà subito un altro, mi fa sentire che sono una piccola parte di un organismo che è vivo, si muove, lavora, riflette, s’innamora, resiste. Mi fa sentire che Milano ha bisogno di me quanto io ne ho di lei. Roma non aveva bisogno di me. Non ha bisogno di nessuno. E’ lì, suprema, una matrona un tempo meravigliosa e ancora orgogliosa, anche se cadente.
A Roma aspettavo gli autobus per ore. Correvo dietro ai tram non perché volevo, ma perché quando una volta ho chiesto “scusi, quando passa?” a un uomo che aspettava insieme a me, ha scosso le spalle e ha detto rassegnato: “Mah, per passare, prima o poi, passa”.
A Roma sarò stata anche nella nostra capitale, ma quelle lunghe attese in mezzo al niente, sotto gli sguardi e i commenti della gente, mi facevano sentire ancora in trappola in provincia.