«Una battuta infelice». Così Alan Friedman, giornalista americano molto noto ai salotti mediatici italiani, ha liquidato dopo giorni di polemiche la frase rivolta a Melania Trump, definita in uno studio televisivo come la “escort” del presidente americano uscente. Se Friedman fosse il primo e magari l’ultimo uomo ad apostrofare volgarmente una donna in tv, potremmo archiviare l’episodio come un deficit della sua educazione. Purtroppo il fatto si incastona in uno scenario assai popolato di sedicenti battutari che quasi mai vengono chiamati a pagare il prezzo della propria violenza verbale. Lo stesso Friedman su Twitter aveva già usato più volte e senza conseguenze la stessa espressione, per cui deve essersi stupito molto quando dopo la trasmissione si è scatenato il putiferio.

Il suo caso a distanza di giorni resta interessante perché rispetta uno schema che si ripete identico ogni volta che un uomo viene preso in flagrante a dire una cosa sessista. La prima reazione è negare: «Avete capito male voi». La seconda mossa è minimizzare: «Mi è sfuggito, non facciamone un dramma». Infine, ma solo se l’indignazione non si placa, arriva il terzo passaggio: scusarsi, ma dicendo che si è trattato di una battuta mal riuscita. Dare della prostituta a una donna però non è una battuta, è un insulto, e confondere i due piani favorisce il ripetersi della situazione. Nella mentalità in cui “escort” è considerata una battuta, il problema non ce l’ha chi la fa, semmai chi non ride. La persona che si difende invocando l’intenzione di una leggerezza divertente non sta riconoscendo di aver detto una cosa violenta, ma sta dicendo: «Mannaggia al politically correct, vi è morto pure il senso dell’umorismo».

Nello schema maschilista rientra purtroppo anche il comportamento di tutti quelli che sono intervenuti sul caso. Da destra si sono alzate proteste vibranti che non si erano mai viste quando offese anche più severe sono state rivolte a donne italiane considerate di sinistra. Per contro, dal fronte progressista le voci in difesa di Melania sono state poche e timide, con la sola eccezione delle donne che abitualmente sono bersaglio della parte avversa e conoscono bene come agisce il meccanismo denigratorio. Il risultato di questa polarità ci dice che in una società maschilista nessuno, anche quando sembra farlo, difende in realtà le donne, ma ciascuno in fondo protegge solo quella che sente la “sua” donna, finendo per agire in modo patriarcale anche quando crede di attaccare il sessismo.

La via d’uscita è intervenire subito, mentre il sessista sta dicendo la presunta battuta, e chiedergliene conto. In ufficio, a una cena, in fila alle poste, la soluzione è manifestare il proprio disagio per quella che è a tutti gli effetti una violenza, affinché sia chiaro che in nessun dibattito un insulto può essere considerato come critica politica. Ci vuole un po’ di coraggio, consapevoli che il maschilismo non vive delle battute dei sessisti, ma dei silenzi e delle risatine di tutti gli altri.

Michela Murgia è una scrittrice. Il suo ultimo libro è Morgana (Mondadori)