«La menopausa non è un problema. È una soluzione». Susan Mattern, 53 anni, docente di Storia all’università della Georgia, ha avuto il coraggio di sfidare una delle certezze nella vita di ogni donna: che la menopausa si accompagni a una sindrome correlata, fatta di vampate e sbalzi di umore. E, soprattutto, che sia una fase di declino vitale in cui la natura “pietosamente” relega le donne non più in grado di svolgere un compito essenziale come la riproduzione. Macché! A suo dire, si tratta del periodo in cui, sin dalla preistoria, abbiamo dato il meglio di noi. I motivi sono riassunti nel saggio The slow moon climbs, in cui la studiosa parte da una domanda: come mai in rare specie animali, tra cui gli esseri umani e le orche assassine, le femmine godono di una lunga vita dopo la fine della loro fase riproduttiva?

IL LIBROLa storica americana Susan Mattern è autrice di "The slow moon climbs - The science, histor

IL LIBRO
La storica americana Susan Mattern è autrice di “The slow moon climbs – The science, history and meaning of menopause” (Princeton University Press, non ancora tradotto in italiano). È un saggio di 480 pagine che, attraverso una disamina di varie epoche e diverse civiltà, analizza il sigificato culturale e antropologico della menopausa.

Qual è la risposta? «La menopausa è come uno stratagemma della natura per assicurare la sopravvivenza della specie e va letta in termini di budget energetico. Nelle società di cacciatori-raccoglitori della preistoria, nel momento in cui una donna non poteva più avere figli raccoglieva cibo da accumulare e consumare quando la tribù si spostava. Al gruppo faceva molto comodo che ci fosse chi produceva più di quello che mangiava, compensando la quota dei bambini che consumavano risorse e basta. La capacità lavorativa delle donne non fertili, nei secoli, ha consentito alla specie umana di aumentare di numero e di sviluppare un cervello più grande, avvantaggiando l’Homo Sapiens rispetto all’uomo di Neanderthal. Che le donne facciano la differenza lo verifichiamo tuttora tra gli hadza della Tanzania, una tribù di raccoglitori in cui le over 50 raggiungono il picco della produttività e continuano a mantenerlo per tutta la vecchiaia. Questo conferma la cosiddetta “ipotesi della nonna”: una spiegazione della speciale funzione evolutiva che da sempre le donne in menopausa hanno svolto per allevare i bambini altrui e continuare la specie. La natura ha scelto noi perché il costo riproduttivo è maggiore per le donne rispetto agli uomini e quindi ricaviamo maggiori benefici energetici dall’infertilità».

Perché i greci e i romani non avevano un termine per definire la menopausa? «Gli antichi medici sapevano che le donne smettevano di avere le mestruazioni, ma non la consideravano una condizione di salute particolare. Anche in Oriente, a parte negli ultimi anni, non è mai esistito il concetto di questo “stato” e tuttora gli hadza non ce l’hanno. Solo nella medicina occidentale dal XVIII secolo sono apparsi trattati con i sintomi accusati dalle donne infertili. Ed è allora che il medico francese Charles de Gardanne ha coniato il termine “ménespausie” in sostituzione di espressioni in voga all’epoca, tra cui “l’inferno delle donne”, e l’ha vista come un problema di salute, con una sindrome così ampia da includere tra i sintomi lo scorbuto, l’epilessia, la ninfomania e la gotta».

"Menopause. The musical", è uno show, in scena in Irlanda e Gran Bertagna, che ha per protagoniste

“Menopause. The musical”, è uno show, in scena in Irlanda e Gran Bertagna, che ha per protagoniste alcune signore che si raccontano i disturbi della menopausa mentre fanno shopping da Bloomingdale’s

Una sindrome così ampia esiste davvero? «Parliamo di sindrome quando non sappiamo come una serie di sintomi si tenga insieme. Dal 1700 in poi questa idea è diventata molto popolare nei manuali medici europei, mentre prima non era mai esistita. Ecco perché suppongo che sia una costruzione culturale che da 4 secoli non è mai stata davvero messa in discussione: al contrario, ha dato inizio a un’industria della cura, a una farmacologia apposita. Perciò tuttora diamo per scontato che esista dovunque e con gli stessi sintomi, cosa non suffragata dagli studi».

Cioè? «Non esiste un quadro di sintomi uniforme e stabile. In Massachusetts, a Madrid e a Rabat, le 50enni segnalano problemi di secchezza vaginale assenti tra le donne di Beirut, che in compenso lamentano palpitazioni cardiache. In Marocco si evidenzia un calo del desiderio sessuale non riscontrato altrove. Le spagnole denunciano rapporti sessuali più dolorosi, ma sono le uniche, e via dicendo. Mentre una ricerca del 2011 attesta che ad accusare i presunti sintomi sarebbero molte donne sui 30 anni ancora fertili. L’unica costante è che tutte vivono la menopausa come una “diminuzione”: sei meno prestante o meno bella, comunque sempre qualcosa in meno di prima perché la nostra cultura non giudica arrivare a questa età come un valore aggiunto. Ma chi dice che una donna è al suo massimo quando è fertile? Dire che le 50enni subiscono un crollo degli estrogeni è come accusare una bambina di 8 anni di non averne abbastanza. Fare figli è considerata la funzione di riferimento, lo standard di efficienza per il genere femminile».

Però le donne patiscono certi disturbi. «Le persone stanno male, è vero. Ma il modo in cui leggiamo i sintomi, se vi diamo ascolto o no, è deciso dal contesto. Presentare la fine delle mestruazioni come una malattia genera un’ansietà simile ad altri “sintomi culturali”. Prendiamo le vampate: se ti viene detto che sono tipiche della menopausa, ci stai più attenta e magari le senti. Se non te lo dicono, le ritieni qualcosa di trascurabile, tipo un brufolo. La menopausa diventa un problema perché viviamo in un mondo che dice che lo è, ignorando perché è sorta, la sua ragione evolutiva. Non lo sanno neanche i medici, che si basano su teorie datate. E l’industria farmaceutica rafforza questa lettura».

Come smettere di considerare la menopausa una malattia? «Bisogna imparare la sua storia e farla conoscere ai medici, soprattutto alle dottoresse. E viverla come una fase non segnata da qualche disturbo, ma dalle relazioni, dalla consapevolezza del contributo che le persone possono dare alla società, quando non sono più concentrate sul crescere i figli o fare carriera. In un mondo in cui domina l’individualismo, le donne in menopausa insegnano, come hanno sempre fatto, che il senso della vita umana sta nella collaborazione. Se noi non avessimo cooperato per il bene comune, la specie umana non sarebbe mai arrivata fin qui».