Sinisa Mihajlovic, allenatore del Bologna, è morto a 53 anni. Da tre era malato di leucemia, tumore scoperto a 50 anni per caso, dopo un dolore strano a una gamba. Ha giocato per Roma, Sampdoria, Lazio e Inter; ha allenato Bologna, Fiorentina, Sampdoria, Milan e Torino. Lascia la moglie Arianna e sei figli. Nel 2019 si era parlato molto di lui perché si era presentato in campo dopo soli 40 giorni dalla scoperta della malattia, che lo stava già segnando visibilmente.
Il rientro in campo nel 2019, durante la chemioterapia
Dopo solo 40 giorni dall’annuncio choc di avere una leucemia acuta, Sinisa Mihajlovic, 50 anni, si è seduto sulla panchina del Bologna nella prima partita di campionato. La squadra che allena ha pareggiato nell’esordio in serie A contro il Verona, ma più che per l’incontro giocato allo stadio, i riflettori sono stati per lui: fino all’ultimo momento sembrava che il tecnico potesse partecipare da un box dedicato. Invece, una volta scesi in campo tutti i giocatori, Mihajlovic – cappellino in testa e cerotto sul collo – li ha seguiti. Vistosamente dimagrito, vistosamente malato, straordinariamente umano. Tantissimi i commenti sui social, a partire da quelli delle figlie Virginia e Viktorija, piene d’amore e ammirazione per il padre.
Fare una vita normale con la chemioterapia
«Affronto il cancro a testa alta e sono sicuro di vincerlo. Giocherò come ho sempre fatto per vincere. È stata una bella botta, ma sono pronto». Così dichiarava Sinisa il 13 luglio scorso, per poi iniziare due giorni dopo la terapia all’ospedale Sant’Orsola di Bologna. Una scelta – quella di scendere in campo – non solo sua. Espressione della voglia di vivere di un grande campione ma anche di una medicina evoluta e di un’équipe che ha valutato sia l’opportunità di esporsi sia tutte le possibili “ricadute” di un’uscita pubblica in condizioni di immunosopressione: «Quello che ha fatto l’allenatore del Bologna, a cui va tutta la mia profonda stima, è un gesto encomiabile, di coraggio e grande attaccamento al lavoro. Un messaggio di grande speranza e fiducia per tutti i malati di tumore: non parliamo di superuomini o superdonne ma di persone normali che oggi, grazie alle nuove terapie, possono fare cose un tempo impossibili». Così commenta Franco Locatelli, direttore del Dipartimento di Onco-Ematologia e Terapia cellulare e genica all’Ospedale Bambino Gesù di Roma e professore di Pediatria all’Università La Sapienza.
Come sono oggi i cicli di chemioterapia
Non deve insomma sorprenderci così tanto il fatto di vedere un paziente oncologico che riesce a vivere una vita normale. «I cicli di cure per la leucemia oggi durano dai 5 ai 7 giorni e si svolgono una volta al mese» spiega il professore. «Nella fase iniziale i globuli bianchi si abbassano velocemente ma poi a poco a poco si alzano e si assiste a 23-25 giorni di recupero. In questa fase, con tutte le cautele necessarie e valutando ogni caso singolarmente, si può riprendere una vita normale».
Le chemioterapie sostenibili
Mihailovic fa notizia, ed è giusto e auspicabile che sia così. Ma come lui, tanti altri pazienti oncologici possono aspirare a un’esistenza normale. Elisabetta Iannelli, malata di tumore da 25 anni e segretario generale della Federazione delle Associazioni di Volontariato Oncologico (FAVO) non si stanca di ripeterlo: «Ogni persona è un caso a sé, ma sicuramente oggi esistono terapie più che sostenibili. Io per esempio, con un tumore al seno metastatico, vado in ospedale ogni tre settimane. Mentre anni fa programmavamo con i medici le sedute di chemioterapia il venerdì, per potermi permettere di recuperare nel weekend, ora non è più necessario. Il fatto è che io non mi sento una donna speciale, non ho né super poteri né una volontà superiore a tanti altri, eppure sono diventata avvocato, mi sono sposata e ho avuto una figlia nonostante tre interventi chirurgici, chemio, radio, terapie mirate e ormonali e continui controlli».
Gli esempi positivi – senza retorica
Le nuove cure fanno la loro parte, ma la volontà, il coraggio, lo spirito quanta importanza hanno? L’una ha bisogno dell’altra, sicuramente. Però occorrono anche le parole giuste per raccontare la realtà di questa malattia, senza cadere nella retorica che spesso invece abbonda, troppo facile e troppo scontata. Così a portata di mano, ma anche così poco rispettosa. «Non siamo guerrieri perfetti dotati di armatura, affrontiamo le cure con un’armatura che si costruisce di volta in volta, un’armatura fragile che potrebbe rompersi e potrebbe anche aver bisogno di essere ricostruita ogni tanto» scrive nel suo blog Luigia Tauro, “cancer survivor” (come si definisce lei stessa), esperta di innovazione digitale, la prima presidente donna della comunità italiana dei Chief Information Officer. «Non siamo guerrieri, siamo persone e credo che dovremmo ricordarlo più spesso. Non credo servano guerrieri, credo servano portatori sani di realtà. Basterebbe provare a raccontare la realtà, magari a piccole dosi condividendo quello che da questa ognuno di noi ha imparato. Ci aiuterebbe a superare i momenti difficili perché il percorso può essere corto o lungo ma non è questo che importa: è sapere che qualcuno prima di noi ha provato quello che noi stiamo provando adesso».