C’è chi li chiama mini-lockdown, chi mini zone rosse, ma il concetto non cambia: sono chiusure parziali, che riguardano soltanto alcune attività e che hanno lo scopo di contenere focolai di Covid senza arrivare al blocco totale delle attività come avvenuto la scorsa primavera. Secondo gli esperti sono la soluzione per affrontare i prossimi mesi o forse già le prossime settimane, in vista di possibili nuovi aumenti di contagi. L’esempio più emblematico è quello di La Spezia, in Liguria, dove dal 5 settembre è scattato un obbligo di mascherina 24 ore al giorno, anche all’aperto nei luoghi pubblici, inizialmente fino al 13 settembre. Una misura alla quale sono seguite altre ordinanze restrittive. Lo stesso era già accaduto in Campania, in alcuni comuni o persino quartieri, come in provincia di Salerno.
In cosa consiste il mini-lockdown
A chiudere per primi, in tutti i casi, sono stati i locali notturni, con provvedimenti preceduti dall’obbligo di mascherine in determinate fasce orarie (come da mezzanotte alle 6 del mattino, orario tipico della movida nei locali frequentati dai più giovani). A seguire sono arrivate limitazioni all’apertura dei locali come bar o ristoranti, con accesso in numero limitato o persino divieto di servire ai tavoli. Da ultimo è scattato l’obbligo di mascherine anche all’aperto e nelle 24 ore. Finora l’estrema ratio è stata la decisione di far slittare l’apertura delle scuole, di fatto prolungando l’assenza dalle aule per bambini e ragazzi, proprio come accaduto a La Spezia.
L’esempio di mini-lockdown di La Spezia
L’esempio più lampante, a cui ha guardato e sta guardando tutta l’Italia in questi giorni, è quello di La Spezia, dove la prima ordinanza è stata regionale e ha imposto la mascherina obbligatoria sia nei luoghi pubblici e che in quelli all’aperto, 24 ore su 24. Obiettivo: contenere un focolaio del quale in un primo momento non si riuscivano a individuare le motivazioni. Col passare dei giorni sono emerse alcune cause concomitanti: da un lato i festeggiamenti dei tifosi dello Spezia Calcio per la promozione della squadra in serie A, che hanno portato ad diversi assembramenti in città, con molti supporter spesso senza mascherine. Dall’altro un focolaio che ha interessato la comunità dominicana, che potrebbero aver trasmesso il virus in occasione di una festa, dando luogo a sotto-cluster. Il risultato è un’impennata di casa che ha portato a oltre 1.000 il numero, il doppio rispetto al picco della scorsa primavera.
All’obbligo di mascherine è seguito il provvedimento di slittamento dell’apertura delle scuole al 24 settembre, ma anche la creazione di una mini zona-rossa (in un quartiere centrale della città, abitato soprattutto dalla comunità sudamericana) con restrizioni più severe agli assembramenti. Il tutto preceduto dall’obbligo di chiusura anticipata dei locali notturni. Insomma, una serie di interventi mirati, a cui ora guardano con interesse gli esperti in vista di decisioni analoghe in altre zone di focolai.
Cosa pensano i medici del mini-lockdown
«Quella dei mini lockdown è una soluzione a cui dobbiamo guardare con interesse necessario. Adesso non siamo più nelle condizioni della scorsa primavera: allora la scelta di chiudere tutto, al centro anche della polemica che ha coinvolto il Comitato tecnico Scientifico, era dettata dall’esigenza di salvare e proteggere una parte importante della popolazione. Nei mesi scorsi rischiavamo un disastro epocale: da qui la scelta di un lockdown più lungo di altri paesi (siamo stati i secondi al mondo a subirlo e tra gli ultimi a toglierlo), ma era necessario. Ne è seguita, però, una devastazione psicologica ed economica che ora non possiamo più permetterci» spiega il virologo Fabrizio Pregliasco, direttore scientifico dell’Istituto Galeazzi di Milano e ricercatore in Igiene Generale ed applicata all’Università degli Studi di Milano.
Mini-lockdown: le tre condizioni necessarie
«Adesso si può pensare a mini lockdown, ma a tre condizioni: che ci sia una maggiore capacità diagnostica con laboratori efficienti nell’individuare nuovi focolai e contenerli; che ci siano comportamenti responsabili da parte dei cittadini, senza eccedere né nell’ipocrondria e nella paura, né nella superficialità; infine che si intervenga in modo mirato e progressivo, proprio come accaduto nello spezzino, valutando la situazione luogo per luogo, e tenendo in considerazione la capacità da parte del singolo territorio di far fronte a eventuali emergenze» spiega il virologo.
Le scuole sono a rischio di mini-lockdown?
«È importante saper reagire in tempi rapidi, con risposte precise» continua l’esperto. Ma a rischiare di più saranno nuovamente bambini e ragazzi con la chiusura delle scuole, proprio come accaduto a La Spezia, dove l’apertura è stata rimandata? «L’apertura delle scuole è un vero stress test, che ci farà capire la capacità di risposta della sanità pubblica. È importante che non si torni alla chiusura. Il secondo passo è garantire la qualità della vita ai cittadini, che non si devono sentire in pericolo» spiega l’esperto.
Ma l’apertura degli stadi (dopo quella delle discoteche in estate) non è un azzardo? «Si tratta di un esperimento. Il dpcm prevede che 1.000 persone siano il limite massimo di concentrazione di persone. È chiaro che la scelta è stata dettata anche dalle spinte economiche. Io credo che l’importante sia la gradualità, insieme alla velocità di reazione, nel caso in cui ce ne fosse bisogno» aggiunge Pregliasco.
Come funziona all’estero
La scelta di chiusure localizzate è seguita anche in altri paesi, dove il numero dei contagi è molto più elevato, come la Spagna (che viaggia sui 14mila nelle 24 ore da diversi giorni), la Francia (che ha fatto scattare diverse mini zone rosse e verso cui l’Italia ha deciso il tampone di rientro, come già avvenuto ad agosto per Malta, Grecia, Croazia e Spagna stessa), Germania e Regno Unito (dove gli esperti temono anche 50mila casi al giorno nel prossimi autunno). Diversa la scelta di Israele, con un lockdown generale, che ha riguardato anche le attività produttive (per tre settimane), le scuole e che consente solo spostamenti strettamente necessari nell’arco di 300 metri dall’abitazione. «Purtroppo non c’è un manuale di comportamento. Anche a livello scientifico non esistono risposte unanimi perché non ci sono risposte certe. Certo, viviamo in una dimensione globale, dove anche i comportamenti degli altri stati potrebbero avere ricadute sul nostro. Il problema è che manca ancora un’uniformità di comportamento a livello europeo» conclude Pregliasco.