Dal suicidio di mio figlio Andrea sono passati 12 anni. Anni pieni di vita, esattamente com’era lui. Anticonformista, colorato, istrionico. Aveva compiuto 15 anni da 6 giorni quando, dopo avermi chiesto in prestito una sciarpa, l’ha usata per impiccarsi sulle scale di casa. In silenzio, senza lasciare neanche un biglietto.

Il suicidio di Andrea, 15 anni, il ragazzo dai pantaloni rosa

Secondo la psicologa, l’ha fatto per tenere lontano dal buco nero di dolore e d’impotenza me, suo padre e suo fratello Daniele che all’epoca aveva 10 anni. Furono loro a trovare il corpo di Andrea, mentre io ero a 600 chilometri di distanza, in Calabria dai miei per una visita medica. Dopo aver sentito mio marito Tiziano al telefono gridare così forte da non riuscire a distinguere le parole, alla fine mi lasciai cadere su una poltrona scossa nella mente – non può esser successo a noi, pensavo – e rigida nel corpo.

Il film ll ragazzo dai pantaloni rosa

L’unica cosa che mi consola è che da allora, insieme con Andrea, ho fatto una rivoluzione incredibile. Ho incontrato migliaia di adolescenti nelle scuole italiane, da Nord a Sud. Ho raccontato cosa vuol dire essere derisi, isolati, senza scampo – in una parola, bullizzati – in classe e in Rete. La storia di Andrea, che avevo raccontato in un libro, è ora diventata un film: ll ragazzo dai pantaloni rosa, diretto da Margherita Ferri, con Claudia Pandolfi che interpreta me e Samuele Carrino nel ruolo di Andrea. È incredibile quanto gli somigli, nei modi e nei sorrisi. L’unica volta che sono andata sul set ho capito di essere nelle mani giuste: dagli attori alle maestranze, tutti mi hanno accolto con grande sensibilità e premura.

Il primo caso di cyberbullismo

Quello di Andrea è il primo caso di cyberbullismo che in Italia ha portato al suicidio di un minore (nonostante le indagini della Procura di Roma abbiano escluso il movente omofobico, scagionando dal reato di omessa vigilanza la preside e tre docenti dell’istituto Cavour, che frequentava Andrea). L’ultimo è di 3 settimane fa, quando a Senigallia il 15enne Leonardo Calcina si è ucciso con la pistola del padre. Nel 2012 di (cyber)bullismo si parlava ancora poco. La prima legge risale al 2017 e solo l’ultima del giugno 2024 introduce l’obbligo per le scuole di percorsi di sensibilizzazione, fondamentali per chi continua a considerare il bullismo una “ragazzata”. Si fatica ancora a riconoscerne la gravità, ma tutto parte dalla consapevolezza. Anche io, come mamma, all’epoca ho sottovalutato i rischi. Vedevo mio figlio andare a scuola con lo stesso atteggiamento allegro di sempre e, per esempio, non avevo mai sentito parlare del ruolo della “vittima collusiva”, cioè chi ride di se stesso pur di essere accettato dal gruppo. Come faceva Andrea, temendo il giudizio o l’indifferenza dei compagni.

L’incontro con il bullo e la storia dei pantaloni rosa

Il film mi è piaciuto perché racconta bene il rapporto tra lui, sensibile e affettuoso, e il bello e dannato della scuola. Andrea si era legato tantissimo a questo ragazzo. Non l’ho incontrato fino alla sera in cui, saputa la notizia della sua morte, è venuto a casa confidandoci di un precedente tentativo di suicidio di nostro figlio e attribuendolo al fatto che io e il padre ci stavamo separando. Mi sentii cadere le braccia pensando all’assurdità di non averlo saputo prima e mi rinchiusi in camera disperata. Solo mesi dopo, quando ho scoperto l’esistenza del falso profilo Facebook “Il ragazzo dai pantaloni rosa”, con la foto di Andrea mascherato da donna per Carnevale, ho capito che era lui il capo bullo che aizzava il resto del gruppo a umiliare Andrea con prese in giro e aggettivi omofobi in un crescendo durato 2 anni. Nessuno dei loro amici parlò. Anzi alcuni compagni di classe dissero che la pagina con gli sfottò l’aveva aperta Andrea stesso “come espressione della sua teatralità”. Un perito informatico verificò che non si era mai connesso, anche se purtroppo ne conosceva l’esistenza. Il tutto a causa di un paio di pantaloni che da rossi erano diventati rosa per un mio lavaggio sbagliato, ma che Andrea aveva voluto indossare comunque. 

L’etichetta appiccicata ad Andrea

Mio figlio era davvero un ragazzo diverso dagli altri, ma non come intendeva chi lo prendeva di mira. A cavallo tra medie e liceo era stato selezionato per far parte dei Pueri Cantores, il coro delle voci bianche della Cappella Sistina. Cinque anni di studio “matto e disperato” e un’educazione molto formale. L’etichetta di gay era solo un modo, il più bieco, di sottolineare la sua sensibilità. Per quel che conta, Andrea non era omosessuale. E, a quanto mi risulta, la sua massima stranezza era mettersi lo smalto colorato e i calzini spaiati. Adesso vivo fuori Roma con Daniele, che sta muovendo i primi passi in un’emittente televisiva. È appassionato di cortometraggi, ma questo film non l’ha voluto vedere. Io l’ho fatto premendo spesso il tasto pausa. E ora che esce in sala temo l’attenzione mediatica, come dopo la tragedia: è come aprire e richiudere la bara di Andrea. Dopo tanti anni a contatto con studenti e insegnanti mi piacerebbe lavorare nella scuola, ho appena passato la selezione per insegnante di sostegno. Stare sotto i riflettori non è il mio ruolo. Ma non lo è neanche quello della “povera mamma”.

Un aiuto per i genitori con figli vittime di bullismo

Secondo l’Osservatorio Bullismo e Cyberbullismo, almeno un adolescente su 5 è stato vittima di insulti e minacce. La psicoterapeuta dell’età evolutiva Elena Buday dell’Istituto Minotauro di Milano dà qui alcuni consigli ai genitori

Mostrare comprensione. La famiglia stia accanto al ragazzo per poter notare cambiamenti d’umore. E dialoghi con lui usando espressioni come “Mi sembra che tu stia vivendo un momento difficile”, anziché giungere a conclusioni precipitose tipo “Sei sicuro di non averlo provocato?” o “Che delinquente!”.

Passare all’azione. Se la situazione lo permette, è utile contattare un referente scolastico che attivi i protocolli per la gestione del bullismo presenti in molti istituti. Se invece le relazioni con i compagni sono troppo compromesse, si può cambiare scuola. Ma senza vivere questa decisione come una sconfitta.

Riconoscere il diritto alla fragilità. Non solo dei nostri figli, ma di tutti noi. Spesso gli atti di bullismo nascono dall’incapacità di riconoscere la fragilità in se stessi: questo porta ad attaccarla nell’altro in modo da sentirci forti a scapito del “debole”.

Non polarizzare la situazione tra buoni e cattivi. Dividere i bulli dalle vittime spesso alza il livello del conflitto e non porta a una soluzione.

Può essere utile il dialogo con le famiglie degli altri ragazzi: gestire l’atto di bullismo come una “comunità educante” per favorire la crescita di una generazione. (M.P.)