Non hai urlato, non hai pianto, non hai detto «No», ti sei lasciata togliere i jeans (possibile? senza reagire?), eri ubriaca, eri drogata, hai provocato, avevi il perizoma, il giorno dopo hai fatto kitesurf. Ultima, in ordine di tempo: ci hai messo più di 20 secondi a reagire. E poi (aggiungiamo) hai aspettato mesi a denunciare. Quante volte la cronaca e le nostre vite ci raccontano di donne che, dopo aver subito violenza e denunciato, vengono vittimizzate un’altra volta.

La sentenza dei “20 secondi” di Busto Arsizio

L’ultimo episodio è accaduto a Busto Arsizio, a raccontarlo al Corriere della Sera è la stessa donna coinvolta, Barbara D’Astolto, 45 anni, due figlie, hostess di Malpensa, che esce allo scoperto. I fatti risalgono al 2018. L’uomo – un sindacalista – che lei aveva denunciato, è stato assolto da un collegio giudicante composto da tre donne: le tre giudici hanno escluso il reato di molestie sessuali e assolto l’uomo, perché la vittima avrebbe aspettato 20 secondi prima di reagire. Intervistata dal Corriere della sera, la donna passa in rassegna sentenze e casi simili al suo: «C’è stato un giudice che ha affermato che indossare il perizoma è una provocazione, un altro che ha detto che la vittima era brutta e che quindi non poteva indurre in tentazione, un altro che ha sottolineato i comportamenti libertini della donna. Adesso apprendo che anche la paura non conta. Ma vorrei capire se le cose stanno davvero così, sapere se alle mie figlie dovrò spiegare che se mai capiterà anche a loro, avranno venti secondi per reagire altrimenti meglio tacere e prendersi le mani addosso».

Il “principio dei 20 secondi” è gravissimo

Possibile che ancora oggi la donna che subisce violenza debba sentirsene responsabile? Se quindi avesse urlato subito, o detto «No» (ma attenzione urlandolo bene) sarebbe cambiato qualcosa? Vuol dire che l’atteggiamento di una donna vittima di un’aggressione può fare la differenza? E chi lo misura, questo atteggiamento? Per capire, chiediamo aiuto all’avvocata Stefania Crespi, penalista del Foro di Milano: « La sentenza emessa dal Tribunale di Busto Arsizio, almeno così come riporta la stampa, appare incredibile. Escludere la sussistenza del reato, se la reazione della vittima di fronte alla violenza è di 20 secondi, è molto grave. Il “palpeggiamento” è definito violenza sessuale da tempo, indipendentemente dalla reazione – immediata o meno della vittima – se dal contesto è desumibile il mancato consenso».

Quando anche dire «basta» non basta

Sappiamo bene, comunque, che la violenza, anche il “semplice” palpeggiamento, impietrisce. Non è scontato che la donna possa reagire. In molti casi – lo riportano le cronache – non è successo, ma un conto è che la mancata reazione immediata ed evidente venga utilizzata dalla controparte, un conto è che questa mentalità appartenga agli organi giudiziari. «Purtroppo spesso leggiamo di provvedimenti che basano l’insussistenza del fatto su elementi inconsistenti» prosegue l’avvocatessa Crespi. «Ad esempio la sentenza del Tribunale di Torino del 2017, che basò la motivazione sulla mancata reazione della vittima. In particolare si contestava che non aveva urlato né pianto; non aveva tradito “quella emotività che pur avrebbe dovuto suscitare in lei la violazione della sua persona”; non aveva riferito sensazioni o condotte spesso riscontrabili in racconti di abuso sessuale, parlando “solo di malessere” senza saper spiegare in cosa consistesse. Si era limitata a dire “basta” e questo per il Tribunale non era sufficiente per l’integrazione della violenza sessuale». La donna vittima presentò un’impugnazione e in appello le violenze vennero ritenute sussistenti. Finalmente giustizia? Non proprio. «La Corte – ci racconta l’avvocatessa – emise il luogo a procedere per la tardività della querela».

Insomma, la donna – ed ecco di nuovo la vittimizzazione – aveva aspettato troppo a denunciare, come è stato detto anche alla vittima di Busto Arsizio. Il caso di Torino però è ancora aperto. «La Cassazione ha annullato con rinvio, affinché la nuova Corte di Appello possa svolgere una nuova valutazione, soprattutto con riguardo alla reazione della vittima di stupro, che può talmente essere spaventata e scioccata da non riuscire a proferire parola, nemmeno “basta” o anche un semplice “no”».

Quando se indossi jeans non puoi essere stata violentata

Con la sentenza dei “20 secondi” pare si stia regredendo ai tempi della “sentenza dei jeans”. «La Suprema Corte stabilì nel 1999 che “è un dato di comune esperienza” che non si possano sfilare i jeans senza la “fattiva collaborazione di chi li porta”. Fortunatamente in seguito gli Ermellini sottolinearono che la parola della vittima di violenza sessuale non può essere messa in dubbio solo perché indossava un paio di jeans: spesso toglie i pantaloni, solo perché minacciata di un male peggiore (come la morte). Il principio è poi stato ribadito nel 2008 con la sentenza n. 30403: indossare pantaloni stretti ed aderenti non può essere considerato elemento per escludere la sussistenza della violenza sessuale».

Quando dici «No» al marito e lui ha ragione a forzare la tua “minima resistenza”

C’è stata poi quella richiesta di archiviazione da parte di un Pubblico Ministero sul caso di un marito che pretendeva attenzioni che la moglie non voleva dargli. Il marito si definisce “amante della materia”, la donna si nega per la “stanchezza delle incombenze quotidiane”. «Nella richiesta si legge – ricorda l’avvocata Crespi – che “è comune negli uomini dover vincere quel minimo di resistenza che ogni donna, nel corso di una relazione stabile e duratura, nella stanchezza delle incombenze quotidiane, tende a esercitare quando un marito – particolarmente amante della materia – tenta un approccio sessuale”». In questa sentenza insomma manca solo la gomitata tra maschi complici al bar, ma l’effetto è lo stesso.

Il “principio dei 20 secondi” andrà rivisto in Appello

Un semplice no, la mancanza di pianti, minimo di resistenza, e ora la reazione in 20 secondi. «Mi auguro – conclude l’avvocatessa – che la Corte di Appello ed eventualmente la Cassazione ribaltino il “principio dei 20 secondi” espresso dal Tribunale di Busto Arsizio, dal momento che la vittima ha già comunicato che presenterà impugnazione. E spero che ciò avvenga al più presto».