Stop a gesti non idonei, a frasi con doppi sensi o, peggio ancora, a «pizzicotti e carezze», «richieste di prestazioni sessuali» e «sguardi insistenti». Il presidente del Tribunale di Vicenza, Alberto Rizzo, ha deciso di intervenire per porre fine a comportamenti molesti nei quali pressoché chiunque – soprattutto le donne – può essersi imbattuto al lavoro almeno una volta nella vita. La scelta è ricaduta su un vademecum a cui dovranno attenersi i 200 dipendenti del Palazzo di giustizia della città. Ma serve davvero un codice di regolamentazione, su modello anglosassone? C’è chi si chiede se in realtà non sia più un problema culturale, in particolare in Italia, che ancora una volta resta molto indietro rispetto ad altri Paesi.
L’iniziativa del Tribunale di Vicenza
L’elenco dei comportamenti da non adottare comprende, tra gli altri, «apprezzamenti verbali sul corpo» dunque un classico esempio di body shaming, ma anche «allusioni alla vita privata sessuale», o persino «richieste di prestazioni sessuali» o «proposte di relazioni in cambio di vantaggi» quindi vere e proprie molestie, compresi «pizzicotti e carezze», «sguardi insistenti» o «apprezzamenti rozzi». Insomma, c’è posto anche per il catcalling, che qualcuno ritiene “complimenti” o semplici avances: «Questo è un luogo di lavoro non di corteggiamento né, tanto meno, di condotte discriminatorie o lesive» chiarisce Alberto Rizzo, che spiega come è nata l’iniziativa: «Lo scopo del codice è prevenire. Si tratta di sei articoli che, pur non essendo esaustivi, vogliono essere d’esempio su come non bisogna comportarsi». «L’iniziativa è nata perché a Palazzo di giustizia gravitano anche molti volontari, laureati o studenti. Il Tribunale è un’organizzazione complessa, come può esserlo un ospedale o un municipio, quindi è ancora più importante garantire un ambiente di lavoro sereno».
Una piccola rivoluzione silenziosa
Ma perché arrivare a un elenco di comportamenti vietati così circoscritto? Ci sono stati casi concreti o si si vuole aumentare la sensibilità su un tema così delicato? «La risposta la forniscono la cronaca e i numeri. Certo, casi ce ne sono stati, ma questo progetto si inserisce in un contesto più ampio: per esempio, abbiamo realizzato uno SporteIlo anti-violenza all’interno del Tribunale, ma anche percorsi per i non vedenti e altri interventi che mirano al benessere del personale. I tre scopi sono informare sui diritti dei lavoratori, ma anche sulle condotte che non vanno assunte; prevenire tramite incontri con psicologi ed esperti del centro anti-violenza (proprio oggi abbiamo avviato le prime riunioni); infine cercare di far emergere fenomeni che altrimenti rimarrebbero nascosti. Questo lo facciamo attraverso i cosiddetti “consiglieri”, che sono 8/9 e che non solo accolgono le denunce ma, trattandosi di lavoratori all’interno del Tribunale, possono anche venire a conoscenza in modo diretto di altri casi» spiega il Presidente.
Dobbiamo seguire il modello anglosassone?
L’idea di un codice di regolamentazione ricorda quelli già esistenti (e da tempo) nel mondo anglosassone. «Lì le aziende fanno firmare policy al momento dell’assunzione e sono molto severe in caso di violazione per condotte non idonee» commenta l’avvocata Claudia Rabellino Becce, esperta in materia. L’iniziativa di Vicenza è considerata all’avanguardia e potrebbe essere seguita anche da altri enti: «Io ho fatto solo il mio dovere, non ho la presunzione di essere d’esempio, ma certamente qualsiasi organizzazione complessa potrebbe adottare un proprio regolamento, in base all’articolo 26 del Codice delle pari opportunità, che prevede l’obbligo per il datore di lavoro di attivarsi per tutelare la dignità delle persone. Poi ciascun ente può scegliere come agire in concreto – spiega Rizzo – Certo in Italia ci manca una normativa specifica sulle molestie negli ambienti di lavoro».
Manca una legge, ma è anche (o soprattutto) un problema culturale
Su questo aspetto concorda l’avvocata Rabellino Becce: «Nonostante le raccomandazioni europee, in Italia manca ancora una normativa specifica. Ben vengano i codici di autoregolamentazione interna, purché servano a promuovere la cultura dell’uguaglianza e del rispetto. Colpisce non tanto sia stato redatto un vademecum, quanto che ci sia stata l’esigenza di farlo, a maggior ragione in un Tribunale. Certo, sarebbero necessarie iniziative non solo nei palazzi di giustizia, ma in tutti gli ambienti di lavoro, perché la cultura patriarcale e sessista è ancora imperante. Lo vediamo tutti i giorni anche sui media, dove alle donne sono tolti i titoli accademici e diventano “Paola”, “Maria” o la “mamma astronauta”, quando “una donna” diventa Rettrice o le avvocate, ingegnere, dottoresse diventano “signore” o “signorine”. Insomma, occorre un cambiamento culturale e che iniziative come questa non restino sulla carta» conclude Rabellino Becce.
Certo, resta il dubbio che ci sia ancora molta strada da fare, se la notizia del Tribunale di Vicenza fa oggi così tanto scalpore e viene considerata un’iniziativa all’avanguardia; se un codice in 6 punti è ritenuto una “conquista”, mentre in molti Paesi esistono norme di condotta stringenti che, nella maggior parte dei casi, portano a punizioni esemplari come il licenziamento.