In Italia ci sono più morti sul lavoro che omicidi. Due persone al giorno nel nostro Paese perdono la vita solo perché sono andate a lavorare e questo avviene nel più assoluto silenzio mediatico, a meno che a morire non sia una persona che non rientra nei canoni che nell’immaginario collettivo inquadrano la normale mortalità professionale.

I riflettori temporaneamente accesi nei giorni scorsi sulla vicenda drammatica di Luana D’Orazio dimostrano una sola cosa: che la vera notizia non è che sia morta una persona mentre faceva il suo lavoro, ma che quella persona fosse una donna, una giovanissima, una ragazza tanto bella da sognare di fare l’attrice e che fosse pure madre. Una vita, insomma, percepita come più preziosa. Di un uomo tra i 45 e i 54 anni – che è la fascia in cui ricade la maggioranza degli incidenti sul lavoro – ne avremmo saputo quello che ne sappiamo sempre: niente, perché in Italia morire di lavoro è considerato normale. Le chiamano morti bianche perché non c’è un assassino da incolpare. Nel caso delle morti professionali, la colpa finisce però per essere attribuita a chi non può più difendersi: la vittima.


Il caso della giovane Luana D’Orazio ha suscitato molto clamore, ma non è isolato: nei primi 3 mesi del 2021 l’Inail ha registrato 185 incidenti mortali sul lavoro, con un aumento dell’11,4% rispetto allo stesso periodo del 2020.


 

Ci sono due pensieri impronunciabili che riguardano questo tipo di decessi: il primo è fatalista e crede che gli incidenti siano cose che possono capitare. In troppi sono convinti che ci siano professioni nelle quali l’eventualità di morire lavorando faccia parte delle possibilità statistiche. È un pensiero che trova qualche conforto nei numeri: ci sono i dati Inail a dimostrare che certe professioni – soprattutto nella cantieristica – sono più rischiose di altre. Un operaio, quando esce di casa e sale su un ponteggio, sa di avere molte più probabilità di vedersi capitare un incidente di quante non ne abbia un impiegato del catasto. Ma è proprio questo a dimostrare che il destino non c’entra nulla: infatti le disposizioni di sicurezza nei cantieri sono più specifiche e rigide di quelle che si applicano negli uffici. Pensare che gli incidenti siano cose che capitano ci spinge a considerarli come fatalità ineluttabili, invece che come eventi che possono essere prevenuti e impediti.

Il secondo pensiero, se possibile, è ancora più feroce del primo, ed è che in contesti pericolosi sia sufficiente stare attenti. È una convinzione così diffusa che, quando accade qualcosa, il primo dubbio è che sia colpa di chi è morto, che non è stato sufficientemente accorto da evitare che quella possibilità capitasse proprio a lui o a lei. In fondo, si tende a pensare, tante persone fanno quel lavoro tutti i giorni senza che capiti niente. Se è successo a te, sarà un po’ colpa tua. Pensare queste cose ci impedisce di chiedere l’unica cosa che può davvero fermare le morti sul lavoro: che la vita umana sia considerata più importante di ogni altra cosa. Il colpevole delle morti bianche si chiama profitto. Le persone muoiono a causa dei ritmi di lavoro serrati, dell’innalzamento dell’età pensionabile (quella dove diminuiscono efficienza fisica, reattività ed equilibrio) e della mancanza di controlli sull’applicazione dei protocolli di sicurezza, che per le aziende sono un costo su cui, quando possibile, non esitare a risparmiare. Un ragionamento semplice in apparenza, ma siamo sicuri che sia così ovvio farlo in un Paese dove le perdite delle attività economiche stanno cominciando a pesare più delle morti per Covid?